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Morandi e le bottiglie immortali

N. 88- Aprile 2024

 

 

 

Morandi e le bottiglie immortali

Incontro Giorgio Morandi una volta sola, a 8 anni. Lui ne ha 74. Sto facendo i conti con gennaio, socio fondatore di un inverno polare. Sono impegnato in un gioco che di frequente il mio capo scout organizza: i lupetti, a coppie, devono pedinare un passante e raccogliere indizi che svelino la sua attività lavorativa, il suo stato di famiglia, il suo carattere. I ragazzini devono relazionare per iscritto e il capo scout sceglie la descrizione più bella e completa. Chiaramente a questa competizione vinco facile: scrittori si nasce e a 8 anni già si mostrano i segni inequivocabili della vocazione (anche Morandi a 8 anni disegna sulla prima pagina del vocabolario un paesaggio con casa colonica al centro: sfondo campestre, ombre da sole pomeridiano, colori tenui).

Risolvo subito due eventuali dubbi. 1) A 8 anni si può girare da soli per strade cittadine? Oggi, si sa, gli studenti vengono accompagnati dalla mamma-SUV fino alla quinta liceo. Ma a quei tempi, rifiutando le caramelle degli adescatori, già dalla prima elementare i bambini vanno da soli a scuola, in parrocchia, a biciclettare su e giù per le discese dei garage. 2) Davvero a 8 anni io scrivo bene? Oggi, è vero, alla scuola primaria fanno manipolazioni di maccheroni al farro per la crescita olistica, rilassamento yoga per prevenire le scazzottate nei corridoi, compiti in inglese inviati a Oxford per la correzione. A quei tempi, invece, si studiano grammatica, matematica, storia e geografia.

Quel giorno, col mio amico Luca-Zampa Tenera, seguiamo un signore alto un metro e 90. Siamo appena entro porta Mazzini, 500 metri dalle 2 Torri. Vestiamo loden blu sopra braghe corte che lasciano al gelido destino ginocchia rosse come ribes spiaccicato. Portiamo i tipici cappellini verdi con visiera, divisi a spicchi da cuciture gialle.

L’uomo spiato è un gigante disneyano: spalle larghe da orco, naso imponente e affilato, zigomi sporgenti quanto scogli al vento, occhiali grandi e tondi come oblò rubati a un transatlantico. Nonostante la mole, gli abiti dell’omaccione sono abbondanti. Il cappotto funereo scivola sulle spalle e le maniche arrivano al carpo. I pantaloni ballano sui polpacci. Dal paltò, non certo acquistato in un’elegante boutique di via Farini, sbocciano la camicia candida e la cravatta nera.

Un cappello ammaccato grigio, a falda piccola, lascia scoperti capelli argentei sulla nuca. Le scarpe hanno una spessa suola di para.

L’uomo cammina con passo incerto: forse è malato (Morandi muore nel giugno di quell’anno, il 1964). Entrato in una tabaccheria di Strada Maggiore, il nostro sorvegliato speciale ne esce con due pacchetti biancoblu di Nazionali, che abitano comodamente la mano enorme. Da vicino, il suo sguardo è da bambino sperduto (Lucio Dalla non ha ancora cantato: “nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino”).

Il signore imbocca la Fondazza, via angusta, fiancheggiata da due file di portici, più alti quelli di sinistra. Si sentono: il rumore drr-drr della sega a mano di un falegname/quello tlac-tlac dei chiodi battuti dal ciabattino su tacchi rifatti/quello zacc della mannaia del macellaio. Si annusa l’odore della cipolla martirizzata su una graticola (l’osteria “Da Silvio” sta preparando i pranzi).

Il nostro uomo si ferma dal barbiere, uscito dal negozio per fumarsi una paglia (sigaretta) in santa pace. Il figaro è più affine a un maiale che a un cristiano: rosa suino sulla testa pelata, guancia da guanciale, pancia da pancetta. Infila un giubbotto dal collo di pelo sopra un camice rosato che non si chiude sull’ombelico.

Ripartito l’omone, domando al barbiere:

-Che le ha chiesto il signore? –

-Un appuntamento per il taglio dei capelli-

-Chi è il signore- incalzo.

-È il più grande pittore del 900-

-E si chiama? – insisto.

-Giorgio Morandi-

Subentra nell’intervista il mio amico Luca:

-Lei possiede un quadro di Morandi? –

-Una volta mi ha dato una tela per pagarmi il servizio-

-Quindi lei è ricco- deduce il mio amico.

Il barbiere ci liquida con due spintarelle:

Oh cinni, andé mo’ a fer dal pugnatt

Talloniamo di nuovo il Morandi, che si blocca alla panetteria. Dalla soglia il fornaio gli allunga un sacchetto e correda:

-Maestro, la brazadela per le sue sorelle-

Quindi il pittore spinge un portone medievale di legno massiccio ed entra al civico 36.

Luca ed io ci infiliamo prima che il battente ci schiacci. Accediamo ad un atrio che sembra un chiostro. La penombra sotto le volte è insidiata dalla luce che penetra da una porta a vetri azzurri e arancioni.

Il nostro uomo sparisce su per una scala stretta e grigia.

^^^ Nelle “nature morte” di Morandi è spesso presente un vaso bianco, scanalato, con collo lungo e sottile. Lo chiamo Vilfredo, per coniugarlo alla nobiltà della sua porcellana tedesca.

Molto ritratta è anche una latta d’olio, dal corpo ocra e tondo, dal cappello marrone che pare un imbuto rovesciato, dal beccuccio che sembra il comignolo su un tetto. Chiamo la lattina Gino, nome semplice e ben diffuso nel bolognese.

I due oggetti stanno su un tavolo insieme a bottiglie, manufatti, recipienti.

Un giorno del 1950 Vilfredo dice a Gino: -Speriamo che il signor Giorgio oggi ci scelga per un bel dipinto-

Replica Gino: -Ma sì, in fondo accanto a te vengo bene-

Vilfredo: -La mia bellezza, raffinata e pregevole, è contagiosa. Di certo, caro Gino, la mia vicinanza ti rende un po’ più carino. Senza di me saresti solo un contenitore obeso-

Gino: -Ehi, non darti delle arie. Tu, con quel collo striminzito puoi al massimo ospitare il gambo di una rosa-

Vilfredo: -E dici niente, una rosa? – ^^^

Io Morandi non lo capisco.

Lui non riesce mai ad allontanarsi da Bologna. Nella sua vita visita solo 5 città: Firenze, Venezia, Padova, Milano, Roma. Rinuncia a inviti a New York, Parigi, Berlino, Londra, L’Aja, Ginevra, San Paolo, dove vengono allestite mostre con le sue opere. Quando nel 1915 prende servizio nell’esercito, nei granatieri a Parma, il distacco dalla città felsinea lo manda in un paio di mesi in esaurimento nervoso: deve essere congedato.

Ogni giorno il pittore fa sempre la stessa strada per andare all’Accademia di Belle Arti, dove insegna tecniche dell’incisione. Il suo percorso: quadriportico arioso della cîṡa di Sêruv (basilica di Santa Maria dei Servi), leggera discesa di piazza Aldrovandi, sosta dal tabaccaio all’angolo con via San Vitale (Morandi incenerisce 5 paglie l’ora), via Petroni con uno sguardo all’arredo liberty dell’Antica Drogheria Calzolari, piazza Verdi e il Teatro Comunale, giù sotto il portico di Palazzo Poggi in via Zamboni, svolta a sinistra all’altezza della Pinacoteca, porticato del vecchio seminario dei Gesuiti, entrata all’Accademia (tra statue di nudi maschili, atletici e dai pistolini-ini-ini).

Al ritorno stessa strada, a meno che il ciclopico Giorgio non decida l’unica variazione, cioè la Piazzola, il mercato di Piazza VIII Agosto. Qui, chinandosi sui banchetti, acquista per due monete (con la testa del re) un giocattolino, una scatola di metallo colorato, un portamatite, una piccola trottola.

Io Morandi non lo capisco.

Io ritengo che tornare sempre nello stesso punto sia girare a vuoto. Io penso che chiudersi in un recinto, sia esso fatto dalle strade di una sola città o dallo stesso nucleo di persone o dalla medesima credenza filosofico-religiosa, porti a impantanarsi in un terreno limaccioso. In breve ci si trasforma in coccodrilli dall’occhio vitreo e dal morso crudele verso chi capita a tiro.

Io sono per il dinamismo dell’escursione, per la conoscenza relativa, per l’opinione multipla, per l’ubiquità del tetto. Io ho scelto il mestiere del vento ficcanaso.

Io Morandi non lo capisco, ma cerco di intenderlo.

Lui scrive: “Si può viaggiare per il mondo e non vedere nulla. Per ottenere la comprensione non è necessario vedere molte cose, ma guardare attentamente ciò che vedi”. Deduco che possano essere importanti la concentrazione e l’allenamento continuo dell’occhio: con queste abilità il mondo è probabilmente diverso anche ogni cinquanta metri.

^^^ Nell’ottobre 1957 Vilfredo il Vaso dice: -Oggi entra dalla finestra quella luce nitida e non fastidiosa che al signor Giorgio piace tanto. Quella luce rimbalza scintillante sulla mia pancia. Mi sa che oggi mi tocchi posare-

Considera Gino la Latta: -Mi farebbe piacere esserci anch’io-

Vilfredo: -Tu chi vorresti che venisse eventualmente con noi? –

Gino: -Io tifo per lo straccio giallo, magari un po’ unto-

Vilfredo: -Io parteggio per la tazza color malva-

Gino: -Ti piace, eh, la tazza-

Vilfredo: -È solo una scodella da caffelatte, di dozzinale ceramica italica- ^^^

E in ogni caso Morandi io lo giustifico.

Bologna, con i suoi 44 km di portici, è la capitale mondiale della passeggiata. Bologna coccola il viandante in un comodo utero orizzontale. Bologna protegge materna l’errabondo, con i suoi interminabili loggiati riparati da sole/pioggia/neve. Bologna irride i francesi, che hanno istituzionalizzato la promenade.

Il nostro pittore cammina molto, non solo per recarsi al lavoro ma anche per portare fuori un cane nero, nervoso pure dopo un full di biscotti. L’itinerario con l’animale, cui il signor Giorgio dà del lei (“Stia attento a non andare tra le gambe della gente”), è in fotocopia quotidiana: su per via Fondazza, via Santo Stefano fino allo slargo dei Garganelli, a destra per via Guerrazzi, ancora a destra per via San Petronio Vecchio e poi dritto fino alla chiesa di Santa Cristina.

Io garantisco che una passeggiata per Bologna è tonificante per cuore/muscoli/sangue ed è salutare per la mente, che va all’opposizione nei confronti degli impegni inderogabili. Dopo la passeggiata Morandi rientra certamente forte e sereno nel suo appartamento, addolcito verso le tre sorelle checoviane e nubili, innamoratissimo del silenzio del suo atelier.

^^^ Nel 1959 Vilfredo domanda a Gino: -Ma tu, sei mai stato spolverato? –

Gino: -Mai-

Vilfredo: -Nemmeno io-

Gino: -Io credo che la polvere entri a far parte della sacralità dell’opera del signor Giorgio- ^^^

Foto di Paolo Monti, come quella di “copertina”

Un mese fa vado al MAMbo, il museo d’Arte moderna che espone la più ricca collezione esistente di Morandi. In mezzo a custodi sonnecchianti mi faccio tre idee. La prima è che le “nature morte” dell’artista bolognese non siano morte, bensì siano balotte (compagnie) di oggetti palpitanti di vita individuale. Si può superficialmente pensare che, con la sua tendenza alla consuetudine, il pittore sia ripetitivo anche nelle opere. E invece no: non c’è un solo quadro uguale all’altro. Gli oggetti cambiano posizione: mobili come pedine sulla scacchiera/disposti su una fila come un plotone d’esecuzione/ordinati su due file come studenti alla foto di classe/raggruppati come un coro che canti un inno alla geometria solida. E se gli oggetti sono gli stessi, il fatto che si spostino li assimila a caratteri da stampa, capaci di suggerire una scrittura inedita e variata da molteplici combinazioni.

Gli oggetti mutano, oltre che il posto, anche le tinte. I colori di Morandi sono tanti, taluni ricavati da casalinghi processi alchemici. Alcune tavolozze da braccio, tuttora custodite nella casa-museo della Fondazza, non risultano ripulite dopo l’uso; gli spessi grumi colorati, senza tracce di raschiature, fanno pensare a un campionario di tonalità preziose, scoperte durante il lavoro e conservate per spunti futuri.

E poi, sul lato esterno dell’inferriata, il nostro artista appende un pannello di legno su cui spalma colori ottenuti da suoi impasti; sono impronte, palline, amalgami lasciati esposti agli eventi atmosferici per più stagioni, allo scopo di osservarne le variazioni cromatiche (e la tenuta plastica).

Se comunque, dopo questa mia disquisizione sulla non serialità delle tele morandiane, qualcuno affermasse ancora di notare replicazioni, allora lo consegno al filosofo Ernst Bloch: La monotonia rimproverata a Morandi è soltanto una maniera di oggettività; di monotonia si potrebbe accusare, piuttosto, l’occhio dell’osservatore. È raro che due nature morte di Morandi siano veramente simili”.

^^^ Nel 1961 Vilfredo dice: -Gino, se tu dovessi formare una squadra tutta tua con le cose che stanno sul tavolo del signor Giorgio, chi sceglieresti? –

Gino: -Beh, io chiamerei nella mia banda il macinino da caffè. E poi la moka piccola. E poi il barattolo dello zucchero. E poi il bricco del latte. E poi la ciotola di Faenza in cui una volta ho visto bere il cane-

Vilfredo: -Io convocherei la fruttiera smaltata, la scatola oro e zaffiro proveniente da un bazar persiano, la bottiglia stretta e azzurra, il misuratore per le spezie, la brocca argentata-

Gino: -Sarebbe una sorta di partita “Poveri” contro “Ricchi” – ^^^

La mia seconda idea rafforza il parere sulla vivezza delle “nature morte”. Molti degli oggetti ritratti sono fatti da ottimi artigiani, da maestri di bottega, da ceramisti provetti. Un flusso vivace viene trasmesso dagli artefici alle opere finite.

La tesi della vitalità nella “nature morte” (lettere uguali, ma, perdonate il mio incurabile esibizionismo, è la dicitura originale francese, al singolare) mi si consolida poi definitivamente: rintraccio degli sbaffi celesti, molto sottili, che si intravedono sotto i bianchi. È come se delle vene veicolassero sangue al di là della pelle delle tele.

La mia terza idea figlia dalla questione se la pittura di Morandi sia timbrica o tonale.

Nella pittura timbrica ogni colore viene impresso con la forza di un marchio. Sempre molto acceso, questo colore ignora l’effetto della luce che, colpendo la tinta, potrebbe mutarne la gradazione e la percezione. Un esempio eclatante è L’Adorazione dei Magi del Perugino: i mantelli dei re pellegrini sono di un rosso e di un verde smaglianti/l’abito della Madonna è blu oltremare compatto/le ombre sono appena accennate =) ne deriva che le figure si staglino nello spazio, protagoniste prepotenti.

La pittura tonale si occupa della luce che colpisce i quadri. I colori si appoggiano gli uni agli altri per definire la profondità prospettica, per giocare con miscele di chiari e scuri, per sfumare gli sfondi e aumentare le pennellate nei punti dove l’occhio è chiamato a indugiare. Sono tonali Beato Angelico, Giorgione, Leonardo, Monet, Turner e Rothko.

La pittura timbrica ha un exploit nel Novecento con Espressionismo e Astrattismo. In Van Gogh il colore è conflagrazione di stati d’animo incendiati. Per Kandinskij il colore ha una sua autonomia e quindi crea da sé, senza ausilio delle mani dell’artista (qui, per miglior comprensione, si può citare il poeta Yves Bonnefoy: “Il mondo non ha colori. È il colore che in sé stesso è. Le ombre del mondo sono solo il modo che il colore ha di legarsi a sé”). Pollock dà la stura alla libera espressività del colore che fuoriesce da secchi rovesciati e da tubetti pestati.

I colori di Morandi si sorreggono tra di loro, armoniosi, in scale mai dissonanti, piacevoli per l’occhio che parte magari dalla bottiglia appena più evidente e poi scorre su scatola, conchiglia, tazzina. Il rosa confina con l’arancione chiaro che sfuma nel giallo isabella che lascia il passo al marrone cacao. Il verde mela prelude al verde sbiadito che sfocia nel grigio. Il viola è sempre affievolito. Il bianco sporco impallidisce (!) nel bianco neve che sbianca (!) nel bianco da lavaggio Dash (Rembrandt, di cui Morandi possiede un quadro, è maestro nelle leggere diversificazioni del nero). Questa pittura morandiana è inequivocabilmente tonale.

Tuttavia, in alcuni quadri del nostro pittore, emergono, singoli e arroganti, il rosso Ferrari di una caraffa oppure il giallo maionese di una bottiglia da whisky oppure il blu elettrico di un vaso a calice. Questi flash sono epilettoidi sussulti di pittura timbrica.

Se quel giorno di gennaio avessi fermato Morandi prima della sua eclisse su per i gradini della Fondazza, gli avrei chiesto un suo disegno. Lui me l’avrebbe senz’altro regalato (il signor Giorgio se ne frega dei soldi: usa assegni non incassati come segnalibri). Io avrei allegato il trofeo grafico al rapporto di lupetto, per stravincere al gioco scout. Poi, però, nonostante l’inconsapevolezza dei miei 8 anni, me lo sarei tenuto.

^^^ Il 18 giugno 1964 Vilfredo il Vaso dice: -Ho sentito che oggi il signor Giorgio è morto-

Gino la Latta: -Sì, dicono che sia morto. Ma, per me, è solo andato in breve trasferta-

Vilfredo: -Ora che ne sarà di noi, caro amico Gino? –

Gino: -Beh, caro amico Vilfredo, noi ormai non moriamo più- ^^^

 Carlo Maria Milazzo

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