Now Reading
La colomba ostinata di Coyoakàn

N. 88- Aprile 2024

 

 

 

La colomba ostinata di Coyoakàn

A me, Frida Kahlo, il dolore si attacca fin da piccola, quando la poliomielite mi regala una lieve zoppia. A 10 anni mi viene da piangere mentre corro in giardino e gli altri bambini, sadici come quando scorticano vive le salamandre, mi prendono in giro: “la sciancatella gamba corta non ci raggiungerà”.

L’evento capitale è però quello dell’incidente sull’autobus per Coyoacàn, quartiere sud di Città del Messico. A 18 anni sto tornando dall’università dove studio medicina. Sono con Alejandro, mi novio rubio. All’angolo del mercato di San Juan un tram sperona il bus e poi lo schiaccia contro un muro, come volesse sodomizzarlo. Il bus si ritrae, si contrae, si comprime. Un corrimano di quattro metri mi entra dal fianco e mi esce dalla vagina: più che uno stupro anomalo di Polifemo è la stoccata del torero al toro. Mi incatramo di sangue.

Nell’ospedale di calle San Jeronimo i chirurghi incastrano i pezzi rotti come tessere di un mosaico. Poi mi sigillano in un sarcofago di gesso e ferro. Rimango un mese immobile. Riesco solo a roteare gli occhi verso una finestra, da cui apprezzo smodatamente le “sciocchezze” della vita: l’alba mi passa intorno al collo un collier di ginestre, le scarpe del sole sono di un giallo sfumato, il vento è stizzito quando attacca briga con i rami del platano, la pioggia è metodica nel crocefiggere le foglie secche sul davanzale, il temporale riassume paradigmatico acqua/aria/terra turbinosa, la luna bipolare è punto oppure virgola.

Dimessa dalla clinica, devo ancora stare a letto. Nella Casa Azul di Coyoacàn due argani mi tirano collo e gambe. Nella mia stanza c’è un silenzio che si sentono le mitosi cellulari. Sono ancora in pericolo come una gazzella asmatica.

Ma… se anche dovessi sfangarla, avrebbe senso stare al mondo? È scritto nel Siracide: “Meglio la morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cronica”. La resa non sarebbe più dignitosa di una vita indecente? La morte può essere atroce, ingiusta, precoce… però solo la vita sa essere ripugnante, schifosa, degradante.

Io, Frida Kahlo, ho nelle vene sangue di ebrei ungheresi e quello di indios taraschi. Discendo dalla combinazione di gente perseguitata, conquistata, diasporizzata ma mai sconfitta. E, tra i cromosomi, ho anche quelli stronzi dei violentatori spagnoli, avidi d’oro e di sesso. Poiché la vita è un peccato da compiere, io, Frida, vivo.

Quando appoggio la schiena ai cuscini raddrizzati, comincio a dipingere. L’unico soggetto a disposizione sono io stessa, che osservo in uno specchio incollato al soffitto. Le prime tele non possono soddisfarmi. Appena mi rimetto in piedi, ex regina di cateteri, ne compio alcune che hanno un loro perché. L’arte sgorga schietta da chi è capace di farla.

Scelgo “Autoritratto con vestito di velluto” e lo faccio spedire ad Alejandro, mandato a studiare a Parigi. Allego questo messaggio: “Alex mio, perdonami se te lo mando senza cornice. Ti scongiuro di metterlo in basso, dove tu possa vederlo come se stessi guardando me”. Nel piccolo quadro il corpo affiora nudo e luminoso dalla veste da camera viola, screziata di rubino e con fiori gialli sul risvolto. Ho alle spalle un mare burrascoso e un cielo più nero di una marmellata di pipistrelli.

Di autoritratti ne dipingo poi tantissimi, più del 50% della mia produzione. Vado orgogliosa dell’autoritratto con scimmie seriose, dell’autoritratto con treccia nero carbone che si impenna a formare un nido, dell’autoritratto con veste da sposa messicana, dell’autoritratto al confine tra Stati Uniti e Messico, dell’autoritratto da calvario con collana di spine (e colibrì). Che dite? Ho dei problemi ad accettare la mia figura segnata dai tormenti? Sì, è chiaro, ho dei problemi… ma se io, mia modella, appaio di continuo vuol dire che posso bellamente esistere.

E anche voi, sapete che io esisto sia in bellezza che in anomalia. È esageratamente volontario il ritrarmi con sopracciglia anomale, unite come massa di pelo di gatto, oppure con baffi anomali, radi come quelli degli ispanici, oppure coi capelli anomali, tagliati da maschio… Se voi misurate l’arte su stupidi canoni estetici e non sulle anomalie è come se steste cercando un camaleonte nella notte.

L’altro incidentissimo della mia vita è Diego Rivera. Lo cerco un giorno mentre dipinge i murales sul Ministero dell’Istruzione. Gli metto in mano due quadri e gli intimo: “Niente complimenti. Solo critiche serie”.

“Voglio vedere il resto”, dice lui.

La domenica successiva è da me, alla Casa Azul, calle Londres 126, Coyoacàn.

Torna altre volte. Ci baciamo. Presto non ho che Diego nella testa. Sono in preda a un sentimento soverchiante e irresistibile.

Lui è brutto, ma veramente brutto. Ha un girovita da tenore, le braccia da scimmione e cammina come un’orsa incinta. Ha le narici svasate, gli occhi tondi come quelli dei rospi, la fronte bombata a comò.

Pesa più del doppio dei miei chili.

Ha il doppio dei miei anni.

È divorziato.

È malvisto da mio padre e da mia madre.

Ma… quando mi sorride, lui sgela la mia tundra interiore. Quando mi guarda lui capisce tutto il mio dolore. E davanti ai miei quadri annuisce.

Lo sposo il 21 agosto 1929, nel municipio coloniale di Coyoacàn. Mi faccio prestare dalla nostra domestica la blusa, la gonna a fantasia di Tehuantepec, lo scialle-rebozo. Mi rinforzo i polpacci con due gambali, per non rischiare di cadere. Diego è in giacca e cravatta ma non rinuncia all’inseparabile cappello bianco da ranchero. Ci chiamano “la colomba e l’elefante”. Ho 22 anni.

Sono invasata ma so che Rivera è una macchina da sesso, non tanto con me ma fuori casa. Lui è un magma perpetuo di ormoni roventi. Le modelle se le scopa tutte, nelle pause della pittura. Se un’infermiera gli va a fare una puntura a domicilio, lui riesce a stenderla sul letto. Se va a comprare il pane copula con la fornaia ancora infarinata. Quando parla con professoresse zitelle, modello Kant-bellezza interiore, le convince presto del piacere epicureo e non solo.

Lui è pieno di Taccosterone: se vede una donna con tacco superiore a 7, la immagina subito nuda con indosso solo le scarpe.

Lui suda spermatozoi quando sluma tette grosse come dune che possano reggere un cammello.

Gelosia? Non ha senso. Esco dalla Casa Azul e mi appassiono. Mi iscrivo al Partito Comunista messicano e partecipo alle manifestazioni degli operai. Mi entusiasma la fotografia, soprattutto se sono io a essere fotografata: ho occhi così profondi da dare un senso di vertigine e con lo sguardo posso incantare, accarezzare, infondere una tenerezza da vuoto nello stomaco. Se non ci credete, guardate gli scatti di Edwards Weston, Manuel Alvarez Bravo, Gisèle Freund, Martin Munkàcsi, Fritz Henle.

Mi faccio le mie storie, parallele a quelle di Diego. Faccio invaghire altri mentre resto invaghita del ciccione Rivera. Il mio segreto? Chissà. Forse emano un calore meridionale ma posso parlare attingendo a un intellettualismo freddo e nordico. Forse so mostrarmi dominante oppure di una dolcezza materna. Forse dispenso gratuitamente il vigore e l’arroganza con cui affronto la vita che mi tiranneggia.

Qui, però… sarebbe meglio chiedere a chi mi ha baciato lungamente i piedi. Come Isamu Noguchi, scultore androgino, mezzo giapponese e mezzo americano. Come Heinz Berggruen, vero estimatore dell’Arte e mercante di tele secondo il suo talento ebraico. Come Nicky Muray, fotografo di dive, migrante ungherese dalla faccia d’attore. Come… rullo di tamburi… Lev Trockij, il rivoluzionario d’ottobre, ospite alla mia Casa Azul da esule (i grandi Uomini, si sa, la rivoluzione la fanno con la pelle degli altri. I morti sono solo dolorose necessità). Come Lucienne Bloch, capace di competere con Diego nei murales e pioniera delle sculture in vetro. Come Dorothy Brown Fox, la dama bianca che, mentre la ritraggo, mi ricorda tanto un mio compagno di classe.

Se vi ostinate a cercare altre notizie su di me, allora chiedete a Tina Modotti, grandiosa fotografa. Tina è amica vera e ha un sorriso che duella con la luna. Nel ’28, nel tempo che non passo insieme a Diego, siamo inseparabili. Passiamo notti a discutere, a ciclostilare volantini, a camminare a braccetto tra i lampioni mosci di Coyoàcan, a sederci sulla panchina davanti alla chiesa così gialla che si vede anche al buio. Io passeggio con pantaloni da lavoro e giubbetto di cuoio. Siamo incazzate con chi, con la pancia strapiena, mantiene alla fame gli affamati. Siamo combattenti per il mondo bello, quello che ti strappa un sospiro, ti stana una lacrima dall’occhio destro e ti arriccia mezzo labbro.

Oh… anche Tina ha posato nuda per Diego, per cui pure con lei il mio panzone ha fatto 1+1.

Ma… di questo non mi frega: l’amica è sacra, il panzone è irrinunciabile.

Dopo il matrimonio con Diego siamo andati a festeggiare a casa di Tina con pochi amici.

Qualcuno di voi mi ha per caso dato della troia e della lesbica?

Chi rinuncia al piacere di essere scandalizzato è un moralista, uno squallido moralista.

Come scrive Conrad, i baci sono ciò che resta della lingua del Paradiso.

E comunque è solo Diego la mia ossessione. Nel quadro “Diego e io” me lo disegno sopra le sopracciglia, là dove gli indiani posizionano il Terzo Occhio. Oppure nel quadro “L’amoroso abbraccio dell’universo” lo tengo in braccio, lui corpulento come un Budda e io esile quanto una colomba. Oppure, nelle “Due Frida” lo racchiudo bambino dentro un medaglione.

La nostra unione è a volte traballante, appassita, soffocante ma spesso è furente, sublime, pura fusione.

Lo mollo una sola volta, quel maiale: nel 1939, quando si scopa mia sorella. E caspita, anche mia sorella Cristina poi no.

Lo risposo nel 1940 a San Francisco.

Per quanto riguarda la mia arte, che dire?

André Breton, proprio lo scrittore/poeta/saggista francese, mi viene a trovare alla Casa Azul. Rimane ipnotizzato dal mio giardino, domicilio di pappagalli rossoblù, scimmie bionde, cani bastardi, cactus ritorti e agavi carnose. Viene colpito dal quadro “Quello che l’acqua mi ha dato”, nel quale, in una vasca da bagno, galleggiano il cadavere di una donna, un vestito, un vulcano col cratere occluso da un grattacielo, un fiore viola, un’isola con due busti maschili.

Breton mi etichetta come pittrice surrealista.

Ma che accidentaccio è il surrealismo?  Forse è la magica sorpresa di trovare un leone nell’armadio dove si vuole prendere una camicia.

Basta, amigos. È ora di passare ai saluti. Un giorno forse scriveranno su di me romanzi, biografie, copioni cinematografici.

Intanto adiòs. Larga vida a la vida

NOTA A MARGINE: Nell’aprile del 1953, presso la Galleria di Arte Contemporanea di calle Ambres, quartiere Juarez di Città del Messico, viene organizzata la prima personale di Frida Kahlo. Lei ha 45 anni ed è di nuovo a letto acciaccata dai dolori dei vecchi traumi. A Diego è affidato il compito dell’inaugurazione. Immaginando Diego già narcisisticamente impostato per il retorico discorso celebrativo, Frida decide che non perderà la sua prima per nulla al mondo. Frida manda la domestica a reclutare una dozzina di giovani nerboruti di Coyoàcan. Poi si fa issare sul baldacchino e così, trasportata dai ragazzi a mezz’aria come una matrona, arriva fino alla Galleria. Una folla immensa e plaudente la accoglie, una fiumana che ha invaso tutti i dintorni. Ci sono amici, amiche, ex allievi, i tanti medici che l’hanno curata, gli artisti messicani del momento e molta gente comune, un universo di sombreri e di trecce corvine.

Per la cronaca Frida Kahlo spira per broncopolmonite il 13 luglio 1954, qualche giorno dopo aver compiuto 47 anni. Ha dato lei il permesso alla morte di portarla via, possibilmente in modo gioioso. Le sue ceneri sono tuttora conservate alla Casa Azul di Coyoàcan

Carlo Maria Milazzo

L’immagine in alto: Daniel Arrhakis, I colori del paradiso – tributo a Frida Kahlo.

Via del Battirame, 6/3a · 40138 Bologna - Italy
Tel +39 051 531800
E-mail: redazione@omnismagazine.com
Reg. Tribunale di Bologna n. 8115 del 09/11/2010

Editore: Mediatica Web - BO

Scroll To Top