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Jodphur, l’indaco e il rosso fuoco

N. 88- Aprile 2024

 

 

 

Jodphur, l’indaco e il rosso fuoco

Il rosso fuoco è facile da immaginare. Una fiaccola accesa nei capelli di Jannik Sinner, il suicidio collettivo di mille coccinelle, cento musi di volpi che bevono alla stessa pozzanghera. Poi un contorno di bucce d’arancia e qualche fiammella cobalto.

L’indaco è più difficile da figurarsi. L’indaco, è vero, è un colore base dello spettro della luce, ma, in un riflesso iridato, chi riesce a individuare una tinta specifica tra l’azzurro e il violetto? L’indaco è un bluff del blu. L’indaco mitiga l’agitazione del violetto, che vuole sconfinare nel livore del viola. La Treccani non aiuta: definisce l’indaco una materia colorante ricavabile dalla spremitura di legumi dell’Asia e non precisa se questi ceci o fagioli si trovino sulle alture del Pamir, nella valle del Mekong o sulle rive del Brahamaputra.

Jodphur, popoloso centro del Rajasthan occidentale, è chiamata la città-indaco. Una larga pianura è riempita da case cubiche che sfumano dal turchese chiaro alla polenta di fiordalisi, dal denim dei jeans slavati alla frittata di fiori di granturco, dallo zaffiro pallido al celeste opaco. Queste gradazioni su stessa tinta pare qualifichino l’indaco.

Il pomeriggio del 2 novembre 1987 ho appuntamento con Ganesh Prasad all’ingresso del Sardar Market, una porta che in alto è a cuore rovesciato. Ganesh, di cui ho parlato nel docu-racconto “Nirvana a Varanasi”, è un hindū conosciuto nel 1976 all’Università di Bologna. Alto quanto una lampada a stelo che illumini un tavolo/così magro da sfuggire ai videocitofoni/baffetti velleitari/occhi scuri e rapidi/pelle brunita, del colore del giubbotto di Steve McQuenn. Appartiene alla casta dei guerrieri, è nativo del Madhya Pradesh e fa la guida per turisti di tutto il mondo.

L’aria è fresca, con gli indizi dell’ultimo monsone appena sloggiato. Con Ganesh attraverso il mercato, polveroso per l’andirivieni di moto che somigliano a Vespe Piaggio 125. Mucche pigre. Un pavone indaco e smeraldo. Sari che urlano gialli salamandra/rosa intensi/aragosta carichi/vinacce pressate/verdi primavera. Uomini, dai crani sovrappopolati di capelli corvini, intrecciano collane di fiori carnosi, bianchi e fulvi. Ombrelloni senape riparano cassette con zucchine a forma di pesci verdini, carote lunghe come omeri, peperoni verde giada, pomodori mignon, cavolfiori bianchicci. Una bancarella espone babbucce in ordine maniacale. Sagome femminili in cartapesta indossano vestiti aderenti rosso fuoco e, ok, indaco. Pashmine a volontà. Tappeti in lana e seta. Bracciali di legno e argento impilati su tavolini. La libreria è intitolata a Krishna.

Sotto la torre dell’orologio, stratificazione di 4 cubi e cappuccio pistacchio, Ganesh ed io montiamo su un tuk-tuk color muffa di gorgonzola. Il guidatore bambino, con sorriso da mariuolo al quadrato, ci porta ai piedi del Mehranghar Fort.

Una rupe anomala di 122 metri si alza a nord della piana, come testa marrone di un mostro dal corpo indaco. Mehranghar è la fortezza che dalla cima della roccia domina la città. Le sue mura, alte 40 metri, sono il naturale prolungamento dei contrafforti della ripida altura.

Accediamo al forte per una strada lastricata che si fa subito erta. Passiamo sotto la prima porta, la Jaja Pol o porta della Vittoria, costruita nel 1806 dal maharaja Man Singh per la sconfitta degli eserciti di Jaipur e Bikaner. Salendo, si transita sotto altre sei porte, tra cui la Fateh Pol o porta del Trionfo, a ricordo del ritorno del maharaja Ajit Singh dal lungo esilio. Dopo ogni porta un tornante inverte la direzione del percorso che diventa così un lungo zig zag.

Sul muretto che costeggia l’ascesa un uomo calvo, ma coi residui capelli laterali molto lunghi, è seduto a gambe incrociate. Barba grigia non rasata da anni. Tunica bianca. Ganesh dice che è un maestro di meditazione trascendentale. Di tanto in tanto levita, staccando le natiche di una ventina di centimetri dal muricciolo.

La meditazione trascendentale è una tecnica per il benessere fisico e psichico, avviata a metà del secolo scorso dallo Yogi Maharishi Mahesh. Si basa sulla ripetizione per alcuni minuti di uno specifico suono o mantra, che permette alla mente di raggiungere uno stato naturale di “consapevolezza senza oggetto” o “senza pensieri”.

Questo stato è per lo Yogi la “trascendenza“, fonte primigenia della felicità, che rilassa profondamente il corpo e calma il senno.

Secondo il Maharishi, però, usare un qualsiasi mantra può essere pericoloso; i mantra sono diversi per i capifamiglia, per gli studenti, per gli eremiti. Ecco allora che ai mantra tradizionali è bene associare mantra personalizzati. E il Maharishi, o uno dei 7000 maestri da lui formati, sono gli ovvi consiglieri dei mantra giusti.

Il funzionamento della meditazione trascendentale è garantito da tanti frequentatori del Maharishi Mahesh, tra cui i 4 Beatles, Mia Farrow, Mike Love dei Beach Boys, Donovan, Mick Jagger, Marianne Faithfull, il regista David Lynch.

Primo dubbio da stupido occidentale: esiste una sorgente di felicità uguale per tutti? Il filosofo Kant, personaggio poco elastico, sostiene che “nessuno può costringermi ad essere felice a modo suo”. E dunque non è determinabile, almeno per il rigido pensatore tedesco, un’idea comune di piacere.

Creare poi migliaia di maestri, non è eccesso di convinzione? Un maestro può avere qualche discepolo, spesso destinato a travalicare il docente stesso. Ma una pletora di maestri collegati sempre al super-maestro…

Dopo la settima porta, la massiccia Suraj Pol o porta del Sole, appare lo stupendo e grandissimo palazzo in arenaria, pietra di sabbia rossa bruciata. Imponente e nello stesso tempo incantevole, secondo Ruyard Kipling “il Mehranghar è costruito dai Titani e colorato dal sole nascente”. Un sentiero largo lo costeggia e permette di ammirare raffinate finestre traforate a filigrana, dietro le quali si intravedono coriandoli di sari vistosi, di donne che ancora osservano l’esterno attraverso la finissima grata.

L’interno del forte ospita un museo con oggetti appartenuti ai maharaja: tessuti, tendaggi, miniature, armi, palanchini per elefanti (portantine di legno intagliato). Il Phul Mahal (palazzo dei fiori) è un auditorio per intrattenimenti musicali: le decorazioni sono fatte con foglie d’oro/colla/urina di mucca. Nel Sardar Vilas sono esposte porte con preziose laccature e intarsi in avorio. Il Khab ka Mahal (palazzo della visione) è riservato alle regine mentre il Zan ki Mahal (palazzo delle donne) è per le concubine. Queste due residenze hanno le finestre-griglie (jali) più lavorate di tutta la fortezza, con cornici merlettate, traboccanti di fiori o di motivi geometrici di derivazione islamica. Il Moti Mahal (palazzo della perla) è un salone del 1500, in origine adibito a divan-i-am (udienze pubbliche): il soffitto è fregiato di vetro e oro, mentre le pareti presentano una tripla fascia di nicchie per alloggiare lampade.

Scendendo, Ganesh mi invita a soffermarmi alla sesta porta, la Lohapol o porta di Ferro. Sul muro che la precede si notano trenta piccole mani in rilievo, rosse soprattutto per la polvere devozionale che molti hindū vi tirano quotidianamente contro. Sono le impronte delle vedove del già citato maharaja Man Singh, che nel 1843 si gettano insieme sulla pira funeraria del marito.

Continuando la discesa, Ganesh mi dice che il 4 settembre appena trascorso ha assistito alla cremazione contemporanea di un marito morto e della moglie vivente (una che Battiato definirebbe “viva come un cammello in una grondaia nell’onorata società”). Il fatto è avvenuto nel paesone di Deorala, poco a nord di Jaipur, 4 ore di macchina da Jodhpur. Sono a conoscenza del terribile evento per aver letto articolo di Carlo Buldrini, ottimo giornalista e corrispondente dell’Europeo.

Racconta Ganesh: alle 10 del mattino la pira è pronta, con i ceppi che formano una base quadrata e poi si sovrappongono in un tronco di piramide. Roop Kanwar ha 18 anni, sposata da 8 mesi, vedova da un giorno. Pure lei è della casta guerriera. La tradizione hinduista, detta Sati, la vuole arsa nel fuoco che incenerisce il marito.

Alle 11, un elefante imbandierato di taffetà giallo precede otto uomini che portano a spalla la lettiga col corpo del consorte, morto di gastroenterite a 24 anni. Roop segue i portantini e il cadavere avvolto in un sudario candido.

Poi si assiepa intorno un pubblico di 4000 persone.

Ganesh mi mostra una foto di Roop, distribuita a molti degli astanti: occhi grandi, di un nero Caravaggio, intelligenti. Capelli neri come cielo che si attrezzi per la tempesta. Naso delicato. Labbra pronte al sorriso.

Nel corteo funebre Roop guarda a destra e a sinistra, impaurita, come a cercare uno sguardo conosciuto. I grandi orecchini ondeggiano. Indossa il sari rosa trapuntato d’oro del giorno delle nozze. Un’amica le ha decorato le mani col mehndi, henné marrone. La suocera le ha segnato la fronte con un punto vermiglio.

4 portantini salgono la catasta e assestano i piedi tra i ciocchi di legna. La salma è passata loro dai 4 colleghi rimasti giù dal mucchio di ceppi. Il defunto viene adagiato sulla sommità.

Roop Kanwar si arrampica sulla pira, attaccandosi con le mani a qualche tronchetto sporgente. Lacrime grosse come perle le bagnano il viso. In cima prende in grembo il corpo dello sposo. Con una mano gli sorregge le spalle, Pietà michelangiolesca.

Il cognato quindicenne tira una torcia ardente nel legname. Il rosso fuoco delle fiamme guizza subito su tutta la pira.

Echeggiano terrificanti le urla di Roop.

Il suocero si spolmona: -Lo spirito della dea Sati si è impossessato di Roop Kanwar! Roop non è più se stessa! Roop è la dea! –

Le bocche dei presenti gridano all’unisono: -Sati mata ki jai! – (evviva la madre Sati!) E l’esclamazione dei 4000 esaltati, dei 4000 “pazzi della dea”, viene ripetuta all’infinito.

Roop si piega in avanti e appoggia la testa sul petto del marito. Lingue di fuoco l’avvolgono. Braci rotolano giù dal rogo, come valanga di mezze angurie.

Secondo dubbio da stupido occidentale: canterebbe Battiato: “chi sono, dove sono quando sonoassente di me”.Allorché ci si spossessa di se stessi, chi si impossessa di te?

Oh, non faccio tanto il furbetto: in quegli anni giovani guardo con simpatia vari spossessamenti, come i deliri da yage amazzonico di William Burroughs, la “ricerca dell’altra parte delle cose” di Artaud presso i Tarahumara messicani, gli stati di allucinazione di Ken Russell, i voli effettivi di Kandinskij con gli sciamani siberiani. Però io sono pervaso da questo timore: per l’impossessamento di altro da sé, chi garantisce che sia una forza positiva, una spinta divina? E chi mi assicura che non sia piuttosto una forza annichilente, una perdizione nel male? (Mr.Hyde impiega pochi istanti a convincere il dottor Jekill di essere un tontolone che non sa divertirsi).

Chiedo a Ganesh cosa abbia provato all’avvampare della pira. Lui dice che avrebbe voluto fendere la folla, scalare i tizzoni, prendere in braccio Roop e portarla giù. (Povero Ganesh, in Europa si è sciroppato troppi film con Gary Cooper o Clint Eastwood, coi buoni che trionfano). Comunque, anche se Ganesh avesse aperto un varco tra la moltitudine e fosse arrivato al rogo, sarebbe stato linciato dagli invasati.

Chiedo ancora a Ganesh, maritatosi da poco più di un anno, se, nel remoto caso del suo decesso, sua moglie sarà costretta a cremarsi viva. Ganesh risponde che, quando sarà il momento di morire, lui farà in modo di essere lontanissimo dalla sua sposa.

Imparo dal mio amico che il termine Sati viene dal sanscrito Satya, che significa verità o sentiero virtuoso. Secondo la mitologia hindū, Sati è la nipote del dio Brahma, supremo creatore, ed è la prima moglie del dio Shiva; un giorno, Brahma offende Shiva ed allora Sati, adiratissima, si butta in un fuoco pregando. Per associazioni simboliche, Sati è ogni donna virtuosa che si immola viva assieme al cadavere dello sposo. Nel testo sacro Atharvaveda, il Sati è ratificato come “un antico dovere della sposa”.

Ganesh aggiunge che chi assiste a un Sati ottiene il punya o indulgenza plenaria.

Terzo dubbio da stupido occidentale: un pilastro dell’hinduismo è la certezza della reincarnazione (a parte qualche rarissima fuoriuscita dal ciclo morte-vita). La reincarnazione, che dovrebbe accompagnarsi anche alla rianimazione e alla reinspiritazione, ha il suo fondamento nel karma. Il karma è una sorta di fedina in cui si registrano le azioni umane, cause che producono effetti. Se le conseguenze di un’azione sono deleterie per altri uomini/animali/cose, il karma si carica di peccati da riequilibrare con azioni positive nelle reincarnazioni successive. Se invece un’azione comporta altrui benefici o godimenti, allora, come è scritto nelle Upanisad, “l’uomo modella il suo karma come un orefice il suo gioiello, perfezionandolo e rendendolo più bello”.

Ecco dunque la mia perplessità =) la legge karmica è binaria: o miglioramento lento della coscienza o espiazione dei gesti negativi di una vita precedente =) per cui, considerando la seconda opzione, come si giustifica un’indulgenza plenaria che non può cancellare le cattive condotte?

Quando Ganesh ed io usciamo dal forte, il sole al tramonto lo incendia come un’enorme pira. Ci allontaniamo dalla rocca rosso fuoco e, per una stradina agghindata di oleandri, guadagniamo le prime case indaco. Una ha la tettoia in legno coperta da foglie di banano: è un piccolo ristorante con tre tavolini all’esterno. Il cameriere provvede con una ramazza a scacciare una scimmia biondiccia, che fa la posta agli avanzi di cibo; poi ci serve il thali, grande piatto rotondo con tanti assaggi, ognuno contenuto in una ciotola (fagioli sfarinati e fritti, tortino di riso bianco, lenticchie gialle, yogurt, arachidi macinate, cetriolo, curry, tocchetti di formaggio paneer, cipolle e cocco piccanti…) Corredano il pasto il roti, focaccia di farina integrale, e birra Taj Mahal.

Ganesh conclude il resoconto del Sati con una terribile osservazione: oggettivamente una vedova hindū non ha possibilità di vita decente qualora rifiuti il rogo. In caso di sopravvivenza è subito retrocessa tra i fuoricasta dalit (anche detti intoccabili, paria o persone spezzate). Una vedova viva è avvertita come uccello del malaugurio ed è un peso economico, visto il divieto hinduista di risposarsi e visto che la dote è già esaurita (Roop ha portato allo sposo 250 grammi d’oro, un televisore, una radio, un ventilatore, un frigorifero). La vedova deve camminare scalza, dormire in terra; se rientra nella casa del marito, è sicuramente aggredita, anche sessualmente, da suocero e cognati.

In fondo, la gloria del Sati, la deificazione di un giorno, l’acclamazione corale di una calca sterminata possono essere sentite come le sole cose buone rispetto a una futura vita invivibile.

Elementi di cronaca 1: pochi mesi prima del Sati di Roop Kanwar, altre tre pire bruciano vedove nel Rajasthan. Ad una cremazione presenziano 25000 persone, all’altra 20000, all’altra ancora 12000. Anche se il Sati è vietato fin dal 1829 (legge inglese), la polizia non si cimenta con aggregazioni deliranti tanto numerose. La sproporzione di forze dà sempre il via libera alla crudele tradizione hinduista.

Elementi di cronaca 2: pochi giorni dopo la morte di Roop, 300 militanti di organizzazioni umanitarie manifestano davanti al palazzo del governo di Jaipur. Urlano per la cessazione del Sati, chiedendo di fatto il solo rispetto della legge vigente. La polizia disperde i dimostranti accusandoli di raduno non autorizzato.

Qualche giorno dopo ancora, il 16 settembre, 300000 hindū si recano in pellegrinaggio al luogo della immolazione di Roop. La processione è lunga 3 km. Molti uomini impugnano spade. Rimbomba ritmica la litania -Sati mata ki jai! –

I fratelli di Roop portano, in mezzo al corteo, un ricchissimo velo in cui sono appuntate schegge d’oro. Lo fanno ardere sulle braci ancora fumanti del rogo della sorella.

Elementi di cronaca 3: i dalit, gli intoccabili tra i quali la vedova scampata viene declassata, sono destinati esclusivamente a lavori manuali e infimi: netturbini, pulitori di latrine, macellai, conciatori di pelli, lavandaie. Non possono accedere all’istruzione. Vestono di indaco per essere sempre riconoscibili. Sono completamente discriminati, vittime di violenze, derubati di ogni cosa di cui entrino in possesso.

In verità, anche per i dalit esiste, nella Costituzione Indiana, l’articolo 17 che dovrebbe tutelarli. Già dal 1950 la legge afferma che è abolita l’intoccabilità ed è reato maltrattare qualcuno giudicandolo un appartenente ai paria, agli intoccabili.

Secondo il National Crime Records, tutt’oggi, ogni 16 minuti viene commesso un crimine contro un dalit ad opera di un non dalit. Ogni giorno 5 donne intoccabili sono stuprate da esponenti di caste superiori; ogni settimana 14 dalit vengono uccisi e 7 rapiti. L’anno 2012 è bollato da una statistica (parziale) come il più delittuoso: 1547 stupri di donne denunciati (che sono soltanto il 10% degli effettivi), 651 dalit assassinati solo a Delhi, ovunque dalit fatti sfilare nudi e inibiti all’accesso all’acqua potabile.

Ribadisco qui il concetto di maggioranza numerica: se 4 caste ostracizzano e perseguitano un’unica (non) casta, la moltitudine diventa infermabile e impunibile.

Comunque, per una vedova già torturata per l’infrazione della regola patriarcale del Sati, la condizione dalit aggiunge grandine alla pioggia battente.

Elementi di cronaca 4: episodidi Sati sono documentati in India fino al 2014, ma sono probabili anche negli anni successivi. Le enormi adesioni a questi efferati rituali costituiscono di per sé muri omertosi difficilissimi da scavalcare.

Come chiosa, l’opinione di un occidentale, non stupido: “Eretico sarà chi accenda il rogo, non già colei che vi brucerà dentro!” (William Shakespeare – Il racconto d’inverno)

Carlo Maria Milazzo

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In copertina: Foto di Anshul Tilondiya da Pixabay

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