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Bologna e i matti di via Emilia Levante

N. 88- Aprile 2024

 

 

 

Bologna e i matti di via Emilia Levante

Chi è matto?

Premesso che “visto da vicino nessuno è normale” (Caetano Veloso), il matto può essere quello che reitera un comportamento inspiegabile, che ripropone ad libitum un modo d’agire dissociato dal comune buon senso.

Appena fuori Porta Maggiore, via Emilia Levante diventa, per un chilometro, via Mazzini. Lì, a cavallo degli anni 80, subito dopo l’incrocio con via Palagi, c’è un punto di ritrovo di matti, a pochi passi dal Bar Rossoblù.

I matti arrivano verso le 5 del pomeriggio, senza essersi dati appuntamento (i matti sono posseduti dalla loro narcisistica unicità e non condividerebbero un palcoscenico). Eppure, quasi attirati da un impercettibile pifferaio di Hamelin, giungono contemporaneamente al calare del sole.

Uno dei matti è Bacco, che parcheggia una A112 così ammaccata da poter insegnare alla grandine come fare danni. Bacco è l’abbreviazione del cognome. Alto 1 metro e 92, si toglie l’abito buono da bancario, cravatta compresa. Indossa velocemente pantaloncini da atletica, scarpe da ginnastica e canotta sbracciata. Bacco, 25 anni, è così strabico che, quando piange, la lacrima dell’occhio destro gli scende sulla guancia sinistra (e ciò spiega perché in macchina giri spesso nella corsia opposta, collezionando bozzi). La sua pelle è trasparente e le vene varicose gli salgono sui polpacci come serpentelli blu.

A seguito di un match calcistico “giovani contro vecchi”, organizzato tra i clienti del Bar, qualcuno convince Bacco di esser dotato di un’elevazione prodigiosa, superiore a quella del bomber Beppe Savoldi o a quella del cestista Gianni Bertolotti. In verità, durante la partita, Bacco ha vagato come uno zombie che abbia sbagliato film ma quel qualcuno afferma di averlo visto staccare in excelsis, per un colpo di testa.

Da quel giorno Bacco prende a dimostrare il suo talento di saltatore: sul marciapiede di via Mazzini effettua una lunga rincorsa e, sotto un orologio liberty che sporge da un palazzo dall’altezza di 4 (diconsi quattro) metri, spicca il suo balzo. Lo scollamento di Bacco dal suolo è di 6 cm, ma, dal marciapiede opposto, avventori del Rossoblù/passanti occasionali/negozianti battono le mani e urlano: -Ti manca solo un palmo per toccare l’orologio! – Soprattutto sale l’incitazione: -Riprovaci Bacco! –  Ed allora Bacco esegue un’altra decina di sprint e di minimi zompi.

Da segnalare che lo scopritore della facoltà di Bacco gli propone anche di farsi legare un lungo bastone sulla schiena, col quale potrebbe addirittura frantumare l’orologio. Bacco salta con una pertica incuneata tra le scapole e in quelle occasioni il traffico si ferma, con automobilisti che scendono a guardare lo spettacolo. Le finestre si aprono e si sporgono altri spettatori. Un’ovazione accompagna il sobbalzo del bastone che rimane a distanza siderale dalla compromissione dell’orologio.

Leggendario personaggio che passa tutte le sere è Settecappotti, all’anagrafe Umberto S. In ogni stagione è appesantito da cinque paltò di era ante-loden, infilati uno sopra l’altro. Mani guantate/testa protetta da elmetto da cantiere/occhiali da saldatore. L’Umberto è convinto che le radiazioni solari uccidano le cellule che ne vengano colpite. Settecappotti spinge a mano una bicicletta dal cui manubrio dondolano due secchi di lamiera zincata. Sul sellino o sul portapacchi del ciclo è spesso legato un involucro (l’Umberto è il pioniere degli sgomberacantine).

I secchi di Settecappotti vengono chiesti brevemente in prestito… Alle quattro e ¾ di ogni pomeriggio, tre centauri cinquantenni, Ciuffo/Pilli/il Maestro, partono dal Bar per raggiungere San Lazzaro. Hanno tute aderenti, regalate da Marco Lucky Lucchinelli, aperte su panze globose dopo il suicidio delle cerniere. Niente casco (in quegli anni non è obbligatorio). Cavalcano Laverda 750, arancioni, con serbatoi così grandi che per fare il pieno devi venderti l’appartamento. Quando il semaforo della piazza di San Lazzarovira al verde, i tre laverdisti aprono il gas a martello, domano la prima impennata e si proiettano a tutta velocità verso Bologna city. La sfida è andare a tutta, senza rallentare agli incroci o fermarsi ai semafori rossi. Sorpassi gneeon a taxisti ismiti, sportellate spack a carene appaiate, fittoni spartitraffico schivati all’ultimo istante. Autobus saltati come rinoceronti uccisi in un safari. Pedoni che schizzano via come sassolini sulle strisce. Ciuffo spanizzo piglia la scia dell’infoiato Pilli e lo svernicia davanti alla Clinica Villa Laura. Però, da dietro, il Maestro, califfo come non mai, entra nell’area del benzinaio Poldo e quando ne esce è avanti ai due di una gomma.

L’arrivo è al semaforo di Palagi, ma cento metri prima del traguardo si rigonfia dall’asfalto la lunga orticaria grigia di un’aiuola, alberata da venti querce. Una curva ad S, stretta e libidinosa, si disegna tra marciapiede e bordo aiuola. È una chicane perfetta in cui i nostri motociclisti piegano a 68° (angolo che solo Marc Marquez ha da poco raggiunto in MotoGP). La Laverda che imbocca per prima la variante è quella che vince perché dall’uscita della S al semaforo finale non c’è più spazio per superare, per cui, all’altezza del Liceo Fermi, i tre assi delle due ruote si affiancano a gas spalancato e piombano in un nanosecondo nel pericolosissimo quadrivio di via Mengoli (dove i fiori freschi a ricordo di incidenti mortali formano una serra perenne). Dopo, chi stacca per ultimo si infila per primo nella chicane.

Ah, i secchi prestati da Settecappotti…

La curva conclusiva è di per sé roba da maghi, ma a volte viene resa ancora più rischiosa bagnandola con acqua, presa da una vicina fontanella con i secchi concessi dall’Umberto.

Nel Bar, una ventina di over 70 conserva strenuamente la tradizione del Tarocchino bolognese (al chèrt lònghi). I Tarocchi sono in effetti carte più lunghe rispetto alle piacentine per briscola/scopa/tressette. Un mazzo di Tarocchi da zug (gioco) dovrebbe avere 78 carte: bastoni/denari/coppe/spade che vanno dall’asso al numero 10, per un totale di 40 + 16 carte vestite, cioè 4 Re/4 Regine/4 Cavalli/4 Fanti + 22 Trionfi o Arcani maggiori. Nel Tarocchino bulgneis le carte vengono ridotte a 62 con l’eliminazione di alcuni scartini, i 2, i 3, i 4 e i 5 dei quattro semi.

Ai Tarocchi sono affibbiati collegamenti con la Cabala ebraica, col Libro egizio di Toth, con un poemetto del Petrarca. Ai Tarocchi sono riconosciuti il potere divinatorio/la matrice trascendente/la guida ad un’iniziazione cristica più che cristiana. I Tarocchi sono allegorici ma anche artistici, disegnati con guizzi della fantasia. I Tarocchi fanno paura, di sicuro ai bigotti, agli scettici professionisti, ai detentori del senso della vita. I Tarocchi fanno paura anche a me, che non rientro nelle categorie testé elencate.

La chiave interpretativa più semplice degli Arcani maggiori è che scendendo dal più alto al più basso si percorre la scala dall’Ente creatore fino all’uomo (il Bagatto, un giovanotto che compie facili giochi di prestigio sentendosi stupidamente prestigioso). Salendo dal Bagatto al ventiduesimo Arcano si fa il percorso inverso issandosi, attraverso tappe, alla Divinità suprema. Ed in fondo è accettabile che dal Dio si scenda al Mondo, poi all’Angelo, poi al Sole, alla Luna, alle Stelle, alle tentazioni del diavolo, ad una morte intermedia, alla solitudine, alla ruota della fortuna, ai Papi, alle Imperatrici, al Bagatto. Ed è plausibile che dal Bagatto (Arcano I) ci si innalzi a Papesse, Imperatori, passioni, eremitaggi, prove del fuoco, demòni, pianeti ed infine a Dio. Ciò che a me sconcerta assai, è che il ventiduesimo Arcano sia proprio il Matto, per cui se Iddio è matto, la vita che da lui gocciola è intrisa di follia/e di sicuro Iddio ha ragionato per assurdo durante la creazione, negando la sua stessa tesi/e di certo Iddio si è volutamente reso irresponsabile, magari passando il testimone della responsabilità a qualche sua creatura. E mi sconcerto di nuovo quando penso che arrampicando dal misero Bagatto con le sue bagattelle fino al XXI arcano, l’ultimo passo verso la divinità è un tuffo nel Matto, follia pura/ghiribizzo visionario/abisso sfondato.

Una costante del Bar Rossoblù è un tavolino pomeridiano con gli stessi quattro zugadur di Tarocchino. Stagione permettendo, il tavolino è messo all’aperto. I quattro: 1) Enea, detto Ghiaccio per la pelle e i capelli color banchisa artica. Ghiaccio vende da una 24ore aperta sbrilluccicanti Baume & Mercier patacca, 2) il Cocco, medagliato per ferita di guerra ad un braccio rimasto a 90 gradi, 3) il fumantino Brunino, che promette di far ingoiare Amanite falloidi al compagno che sbaglia giocata, 4) Il calzolaio Pino, specialista in scarpe da giocatori di biliardo, con rialzi interni che avvicinano i bocciatori ai pallini. Contemplo affascinato le partite, ammesso all’osservazione perché sono un bravo ragazzo (il giocatore d’angolo, quello che sta in piedi, non gioca, vede le carte dei zugadur e, a fine mano, pontifica sugli errori commessi, quello è odiato visceralmente).

Anomalo è il numero delle carte che non è divisibile per 4 e pertanto il mazziere deve accantonarne 2 che verranno annesse alla presa finale. Gli “accusi” sono combinazioni tra le carte servite e danno punteggi. È proibito parlare durante il zug: si possono solo usare le dita per bussare, strisciare o volare. La coppia si scambia di nascosto qualche segno convenzionale. Il conteggio dei punti al termine di una mano è complesso quanto un’equazione cubica di Cardano.

La carta che mi colpisce di più è, neanche a dirlo, il Matto. La figura del Matto bolognese non è impressionante: un ragazzo dallo sguardo sognante, con un cappello di foglie multicolori, suona con una mano un tamburo e con l’altra una trombetta. Altri Matti sono più inquietanti: ad esempio quello dei Tarocchi di Marsiglia ha un turbante rosso, verde, bianco e giallo/ha lo sguardo perso/ha un bastone d’appoggio nel pugno destro e in quello sinistro un randello con appeso un fagotto/le calze gli scendono giù dalle cosce/un polpaccio è addentato da una lince/la cintura è composta da 12 piastre d’oro.

Nel gioco, la carta del Matto non ha potere di presa sulle altre carte e nello stesso tempo non può essere presa da nessuna altra carta. Serve al giocatore per passare la mano e non giocare al momento che ritiene più vantaggioso: per far ciò basta che lui la mostri agli avversari e la riponga nel proprio tallone da presa (tale giocata è detta “coprire il Matto”). È emblematico che il Matto non interagisca col gioco ma che non possa nemmeno essere catturato! La sola occasione in cui il Matto viene preso è quando il giocatore che l’ha coperto non abbia pigliato nessuna carta: il Matto viene allora ceduto ai mazzi dei rivali. E pure qui è significativo che il Matto da solo non possa stare!

Procedo con la rassegna dei matti dell’ora del thè. Colonnello è un ragazzo grasso come il lupo che s’è appena sbafato Cappuccetto Rosso. Tra le carie dei denti marroni gli fuoriescono proiettili di saliva. Colonnello, così fa di cognome, sale su una sedia e parte con una radiocronaca inventata di una partita del Bologna Football Club. Stringe un barattolo di piselli e lo porta alla bocca come fosse il microfono. Descrive: -Ecco scendere sulla fascia sinistra Salvatore Vullo. Il terzino allunga a Colomba all’ala. Cross tagliato. Inzuccata di Enéas. GOL! Go-go-go-gol! Ha segnato Enéas de Camargo, il brasiliano triste- E ancora: -Il mediano della squadra ospite lascia andare una fucilata dal limite dell’area. Klaus Bachlechner si oppone di schiena e Gamberini rinvia a campanile,,,,,,- Di tanto in tanto Colonnello inframmezza con voce roca un famoso intervento proveniente da altro campo:

-Scusa Ameri, sono Ciotti. Ha segnato Bruscolotti.

L’Impiccato tra i tarocchi

Al termine del resoconto radiofonico, Colonnello inscena il proprio suicidio. Sposta la sedia sotto il balcone basso di un primo piano, lega una corda alla ringhiera, si fa passare un cappio intorno al collo e per 5 minuti ripete: -Adesso mi ammazzo- Nessuno calcola il morituro che a un certo punto si toglie il laccio scorsoio e rinuncia all’insano atto. Una volta, però, l’infiammabile Brunino, stufo della tiritera sul farla finita, dà un calcio alla sedia e Colonnello rimane appeso con la corda che lo strangola. -Mo’ ti cavi davvero dai maroni– sentenzia Brunino. Per fortuna Ghiaccio e il calzolaio accorrono a sostenere e liberare il Colonnello già color melanzana. (Segnalo che l’Impiccato è una carta dei Tarocchi).

Altro matto memorabile è il Cev, pure lui identificato con un frammento del cognome.  Cev è magro come se avesse per genitori Quaresima e Ramadan/le labbra sono risucchiate all’interno da mancanza di denti e dentiera/le mani sono solo un intreccio di vene. Cev ha lasciato un polmone e forse anche gli emisferi cerebrali dentro un carrarmato incendiato ad El Alamein. Arriva al Bar con una Fiat 600 color kaki che riproduce in grande l’elmo portato durante la battaglia nel Nordafrica. Cev ha stabilmente in corpo 1 litro di sangue e 5 di lambrusco (un suo soprannome è Giacobazzi).

Cev scende con un contenitore turchese in moplen. Dentro c’è il suo animale domestico, un’anguilla. Il pesce serpentiforme viene versato nella vasca di metallo che raccoglie l’acqua della fontanella di cui ho già accennato. Del resto, se porti il cane a sgambettare in un giardino nei pressi di casa, un’anguilla la porti in una vicina pozza H2O.

L’anguilla tende a scappare dal bacino della fontana ma Cev la ripiglia, le sfarfuglia contro e la minaccia col pugno chiuso.

Un altro matto abituale è l’Imperatore, Paolo M. Lui smonta dall’autobus dopo essere stato appeso agli appositi sostegni orizzontali come da lì a poco farà Yuri Chechi con gli anelli. In qualsiasi mese è vestito con camicia a maniche corte aperta fino allo sterno. Ha capelli color torcia, sparati in su. Ha un vero sguardo da matto, di quelli che precedono raptus violenti. Ha i bicipiti di Jeeg Robot.

L’Imperatore, ogni pomeriggio, afferra il palo che regge il cartello del senso unico e compie la cosiddetta bandiera, mettendosi col corpo sospeso e parallelo al marciapiede. Quando rimette i piedi a terra Paolo allarga le braccia e dice: -Solo un Imperatore sa fare questo- Dal Bar scrosciano applausi.

Dopo queste pazze esibizioni, io compio sempre una passeggiata fino in centro, tutta sotto portico. Lungo il percorso incrocio un altro buon numero di matti (so che è difficile crederlo). Subito dopo Porta Maggiore Pendolino sta appoggiato al muro con gambe e culo, poi oscilla il busto avantindré.

Da via Fondazza compare Tamarindo, che balla solitario e leggero un valzer: entra ed esce dagli occhielli dei portici. Ha capelli nero Batman che svolazzano a mantello. Pupi Avati l’ha filmato brevemente e una sera che Tamarindo si sta riposando contro una colonna mi mostra la carta di identità su cui ha fatto stampare “Attore”.

Sul muro di Santa Maria dei Servi ci sono due scritte: “Beccia ha il parrucchino e De Zan lo sa” (Beccia è un ciclista calvo già a vent’anni. Adriano De Zan è noto cronista del Giro d’Italia). La seconda scritta: “Non so a quale Diavolo vendere l’anima” (Il Diavolo, carta dei Tarocchi, è furbamente multiforme). Segnalo che dentro la basilica pende uno stupendo Crocifisso, opera di tal Zameretta, interamente fatto con carte dei Tarocchi, macerate/pressate/ridotte a cartapesta.

Da via Begatto (storpiatura dialettale di Bagatto!) viene su Gnegno, claudicante e con la faccia storta come se avesse preso pugni solo da un lato. Gnegno è diretto al cinema Rialto, dove fa la maschera e, durante la proiezione, vende brustulli, noccioline, cof (ghiaccioli) alla menta o al limone. Gnegno è bullizzato dagli studenti che, dopo i fughini scolastici, si ritrovano alle matinée del cinematografo. Una volta Gnegno viene defenestrato dalla balaustra della galleria e precipita in platea: da quel giorno echeggia spesso nella sala buia la macabra ordinazione: -Gnegno, un cof al sangue-

Sopravanzo, all’angolo con via Borgonuovo, il palazzo natale di Pier Paolo Pasolini che, tra i tanti pensieri, afferma: “l’ottica dei pazzi è da prendersi in seria considerazione: a meno che non si voglia essere progrediti in tutto fuorché sul problema dei pazzi, limitandosi comodamente a rimuoverli”.

Passo quindi di fronte a Casa Rossini, al 26 di Strada Maggiore. Immagino Gioacchino che, sporgendosi dal balconcino mi chieda: – “Dammi il conto della lavandaia che ti metto in musica anche quello” –

Alle Due Torri incontro Sara M., Fatina dei Fiori per alcuni/Signora Primavera per altri. Ha un cestino sotto braccio in cui sono stesi, ordinatissimi, mazzolini di fiori di stagione. La signora è sempre elegantissima, con vestiti confezionati da un’amica sarta che si abbinano ai petali nel canestrino di vimini. Viole, margherite, primule, calendule, tulipani rossi, lillà, ciclamini dettano il colore dei tailleur o dei cappottini. Il cappello in tinta è immancabile.

Pare che la Fatina prenda il treno tutti i pomeriggi a Vergato e si sistemi in uno scompartimento che i controllori le riservano per preparare le composizioni floreali

La Fatina cammina con passo d’attrice, lento, appena ancheggiato, un piede davanti all’altro. Va su per via Orefici, sotto il Pavaglione, all’Archiginnasio e torna giù per via D’Azeglio. In molti comprano i mazzetti. Poi la Fatina, madre di tutti i pakistani vendiRose, entra in qualche ristorante di Indipendenza e traverse.

Al centro di piazza Maggiore mi volto per tornare indietro. Immagino di invertire rotta nel punto in cui, nel 1423, San Bernardino da Siena dà fuoco al “rogo del Diavolo”, bruciando tutti i Tarocchi e tutti i mazzi di carte presenti in città.

Vado a prendere l’autobus 44, a due piani. Alla fermata staziona l’ultimo matto di giornata, Maurizio S.. Viso a trapezio, pochi capelli unti, sorriso da Stregatto, questo Maurizio fa due domande a tutti quelli che salgono sul mezzo pubblico: 1) Che lavoro fai? 2) Quanto guadagni? La maggior parte degli utenti, conoscendolo, gli risponde =) per cui si palesano un avvocato, la commessa di Parisotto, il tabaccaio dei Notai, la farmacista della Comunale, il sassofonista da balera, il pescivendolo di Drapperie. E gli stipendi dichiarati variano dal milione ai 3 milioni di lire.

Al mio turno Maurizio mi chiede: -Che lavoro fai? –

Rispondo sempre: -Premio Nobel per la Letteratura-

-E quanto guadagni? –

-Zero lire-

-Bravo- si complimenta Maurizio.

Segnalo che, a chiunque mi chiedesse ora che lavoro faccio, io rispondo ancora: Premio Nobel per la Letteratura. Quanto guadagno? A moneta cambiata, posso dire di intascare zero euro.

Ragionateci sopra, se non siete matti.

Carlo Maria Milazzo

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