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New York, biglietto da buio a stelle e ritorno

N. 89- Maggio 2024

 

 

 

New York, biglietto da buio a stelle e ritorno

Manhattan, aprile 1987. Mattinata fredda che se entri in un bar e chiedi qualcosa di caldo ti danno un cappotto (Groucho Marx, nato a N.Y. nel 1890). Cammino per la Fifth Avenue, nel tratto che solca il Midtown. Marciapiede gremito di pedoni che vanno nella stessa direzione e alla medesima velocità, leggermente spedita: se ti fermi per allacciare una scarpa o per leggere una pubblicità ti tampona un poker di viandanti e rischi di innescare un capitombolo massivo.

Lascio sulla sinistra l’Empire State Building, gigantesca siringa con tanto di ago/pennone. King Kong non è appeso, squalificato per doping da steroidi (viene riabilitato per il remake del 2005 con Naomi Watts e Adrien Brody, quest’ultimo nato a N.Y. nel 1973). L’Empire è il grattacielo più alto del mondo dal 1931 al 1973, quando le Torri Gemelle lo superano (e qui ci sta una barzelletta cinica: Amer, figlioletto di Osama Bin Laden, torna da scuola piangente. “Che ti è successo?” gli chiede il padre. Amer: “Mi hanno rimandato a settembre in geografia”. Osama: “Che t’hanno chiesto?” Amer: “Qual è l’edificio più alto di N.Y. e io ho risposto l’Empire”. Osama: “Non preoccuparti, per settembre ti faccio promuovere io”).

Tra i molti suicidi compiutisi dall’Empire, il più sconcertante è quello del primo maggio 1947. La 23enne Evelyn McHale si lancia dalla terrazza dell’ottantesimo piano e piomba su una limousine nera parcheggiata. Il corpo resta intatto, non uno schizzo di sangue. Non uno strappo nei vestiti. La ragazza sembra dormire su un letto sfatto, supina, composta, con le mani in su. Pallida, con i capelli tirati indietro. Bella come una sorella di Marylin. La Morte si è di sicuro voltata di spalle durante il volo e, a impatto avvenuto, non si è avvicinata più di tanto. Alla scena assiste casualmente Robert Wiles, studente appassionato di fotografia. Wiles non si lascia scappare lo scatto della vita. La sua fotografia viene pubblicata 11 giorni dopo su Life, col titolo “The most beautiful suicide”. Life sancisce la perfezione estetica della foto, ribadendo una opinione di Kierkegaard: l’esteta e il fotografo vivono sempre e solo nel momento. Anche se, in questo straordinario caso, la foto di Evelyn su limousine stropicciata conquista una voluttà estetica duratura, che la imparenta con l’Arte. Non per nulla Andy Warhol (morto a N.Y. nel 1987) acquista la foto nel 1960 e la rielabora nell’opera Suicide (Fallen Body).

Davanti al Bryant Park due scoiattoli beige, tanto carini, mi fanno moine: mi tengo a distanza dalle loro subdole zoonosi. Giro a destra sulla 42nd Street. I passanti si diradano e comincia lo spettacolo di facce: l’irlandese con capelli aragosta, pelle margarina, neo a forma di quadrifoglio sulla tempia/l’italiano, borse viola sotto gli occhi come i veri capomafia/il rabbino, densità forestale di barba e baffi/il Trump (nato a N.Y. nel 1946) con mascella come se avesse mangiato il Titanic/il bodyguard, volto lavato col Tide e capelli cortissimi/l’autoctono obesoide, con guance extralarge che al ristorante pagano due coperti ognuna/il giocatore di basket nigeriano, gommoso nell’andatura e nella centrifuga del chewing gum/lo sciamano tarocco, rugoso, collana di dubitabili denti di lupo, bandana viola/la giamaicana con treccine legate da nastrini gialli che paiono farfalle/una 22enne Sarah Jessica Parker, volto lungo, naso deciso, ricrescita mora a sconfessare il biondo dei capelli laterali/il cinese, cute pompelmo e ciuffo corvino/il dominicano color caramello, narici larghe, berretto da baseball/una 22enne Linda Evangelista, con labbra che dovrebbero stare al Louvre (così direbbe Woody Allen, nato a N.Y. nel 1935)…

Sorpasso il Chrysler Building, costruito a più riprese dall’architetto William Van Alen (nato a N.Y. nel 1883). Il grattacielo, grigio chiaro, è, a parer mio, il più bello della Grande Mela. La cuspide di 38 metri è in acciaio inossidabile cromato, fornito dalle Officine tedesche Krupp/è scandita da 7 archi ellittici sovrapposti/è traforata, su ogni arco, da 30 finestre triangolari smerlate e a raggiera. Il Chrysler combatte spesso col sole, come farebbero due pugili gialli.

Dopo l’incrocio con la 3rd Avenue appare la mia prima meta di giornata: il grattacielo della Pfizer, un incisivo di drago che buca un cirro-balena. Architettura semplice: torre di cubi di lato sempre lievemente minore. Esterni in solo vetro che per pulirli ci vuole un lago di Vetril. Mi siedo sulla panchina che fronteggia la porta girevole, vigilata da due alberi sottili con gemme timidissime.

Io sono qui per pronunciare un sentito Grazie alla casa farmaceutica che sta distribuendo il Santo Tavor e che mira alla produzione del Santissimo Xanax (al momento diffuso dalla Upjohn). Ok ragazzi/e, la Pfizer è accusata da alcuni di traffici non autorizzati/di suggerimento di medicine inappropriate con tangenti ai dottori/di filantropie pelose/di furti di brevetti/di sperimentazioni senza scrupoli nell’Africa equatoriale, con morti che dunque diventano vittime di omicidi/di imperialismo farmacologico/di prezzi troppo alti per nazioni in via di sviluppo/di forniture concordate e non espletate. Ma lo Xanax, volete mettere l’effetto rassicurante dello Xanax? Volete considerare la mano materna dello Xanax sulla vostra pelle tremante? Volete stimare il riordino dello Xanax nel guardaroba scompigliato del vostro cervello?

Lo Xanax (o alprazolam) ottiene licenza dalla Food & Drug Administration nel 1981. Nei primi due anni è boom di vendite. Nel 2010 il N.Y. Times definisce i 50 Stati americani The United States of Xanax. È più che probabile che, già da inizio anni 80, dal Maine alla California, gli alberi di Natale vengano agghindati con palle e scatolette di Xanax/i Re Magi portino oro, incenso e Xanax/si assuma Xanax prima delle circoncisioni/le bambine ricevano in regalo la Barbie Xanax, con collier di pillole/nel “piccolo medico” sia inclusa la boccetta di Xanax gocce.

Mia mamma direbbe: “Ai miei tempi tutte ‘ste droghe non c’erano”. “Per forza mamma, siamo passati dal Paleolitico all’Ansiolitico”. (Io faccio coincidere l’inizio dell’Ansiolitico con “Age of Anxiety” di W.H.Auden, domiciliato a N.Y. dal 1948 al 1957. Una citazione dal testo? “L’io è un sogno e rimane un sogno finché gli altri non gli danno un nome”).

 In genere lo Xanax riporta il suo consumatore agli stati di perfezione e impeccabilità evidentemente erosi. Con lo Xanax il fruitore torna ad essere protagonista della sua narcisistica e irrinunciabile performance. Con lo Xanax l’utilizzatore recupera le stelle e l’infallibilità del Papa.

Xanax, terapeutico dell’ansia, ha queste due X impattanti che sovrastano la sola X dell’Anxiety. (Il francese Anxieté coltiva la X, ma il suono, anxieté, è dolce, un vezzo esistenzialista, un fiore del male romantico). Anche il termine latino Anxia ha la X, centrale. Anxia si collega al verbo angere, schiacciare/stringere/premere. In effetti l’ansia è una tenaglia dell’encefalo, una chiusura dello stomaco, uno strangolamento della laringe, una mancanza d’aria nei polmoni. L’ansia è l’oppreXXione di un doppio peso, quello del reale e quello dell’irreale.

Xanax, parola palindroma, suggerisce la concomitanza di due percorsi identici, uno che va da X maiuscola, la salute produttiva, a x minuscola, la grave frustrazione organica. Nello slittamento verso la x piccola, la deglutizione di Xanax riconduce alla X grande. Ok boys & girls, l’artificio Xanax è una breve respirazione bocca a bocca/è un arcobaleno di tranquillità a tempo/è un momentaneo sondino naso-gastrico per nutrizione enterale. Ma, intanto, funziona.

Poi lo so, ragazzi/e, che si può precipitare oltre la x piccola. La compressione prolungata porta all’asfissia impanicante, al flipper dei neuroni, alla deflagrazione delle budella. Oltre la x piccola c’è il bordo della follia, da cui, se si scivola, è la fine. (Qua, dunque, sul ciglio, lo Xanax abdica da ogni risultato).

La follia è un mare ghiacciato dove l’annegamento è avvertito come soluzione incontrovertibile. La follia è una notte buia dove si consolida la certezza che le stelle non esistano. La follia è miglia e miglia sotto la disperazione. “Lucida follia” è ossimoro da radical-chic.

Mentre mi sto assiderando sulla panchina, dal grattacielo Pfizer esce David Foster Wallace. Lo scrittore ha lunghi capelli castani, pressati su fronte e tempie da fascia bianca da kamikaze/porta occhiali tondi e leggeri/indossa camicia blu scuro, aperta sullo sterno (brrr….). David nasce nel 1962 a Ithaca (400 km da N.Y.), si laurea nel 1985 con una tesi che assembla nientepopodimenoche letteratura inglese, filosofia di Wittgenstein, logica modale, matematica. Al momento del nostro incontro ha da poco pubblicato “La scopa del sistema”, il caso letterario del secolo: il nuovo Emile Zola! (N.Y. Times) /la metanarrazione! / verbosità e surrealismo! /eccesso e ironia! / il puzzle linguistico e stilistico! A 25 anni David è già invitato a insegnare scrittura creativa in Università californiane (ma come si fa, ragazzi/e, a INSEGNARE LA CREAZIONE? È come se Dio creasse il cielo e la terra con un tutor o con un manuale di istruzioni). A 25 anni David è utente fisso degli psicofarmaci (fenelzina in primis) e la sua presenza alla Pfizer ha forse un perché. Nel suo recentissimo testo di successo David scrive: “Avverto questa smania altrui di volermi inchiodare, mi sento come una farfalla da collezione”.

Seguo David che oscilla, mani nelle tasche dei pantaloni. Che faccio? Lo fermo? Non lo fermo? Che potrei chiedergli? Io ho pubblicato prima di lui e io sono il vero caso letterario del secolo (opinione al momento espressa solo da parenti e amici). Dovrebbe essere lui a fermarmi? Ma sì, ti mollo, caro David. Va’ con Dio, o con il suo tutor.

Mi dirigo verso la seconda meta di giornata, sgranocchiando un muffin alla mela. Riprendo la Fifth. I tombini da cui sfiata la metro sbuffano lenzuoli di fumo palpitante. I pettorali barocchi sui manifesti pubblicitari sono dell’imbattibile Mike Tyson (nato a N.Y. nel 1966). Ragazzini neri racimolano qualche dollaro con breakdance acrobatiche. Poco più avanti i loro genitori incrementano le elemosine combinando una tromba dalla voce umana, un banjo metallico, una chitarra trafugata dai campi di cotone, un’armonica tagliente (Blues nasce dall’espressione “to have the blue devils”, avere i diavoli blu, col significato di patire una depressione allucinatoria).

Foto di Gorup de Besanez

Costeggio vetrine del Rockfeller Center, indeciso se comprare un Cartier da 10 dollari o uno da 10000. Quindi giro a sinistra sulla 53rd Street. Entro al MoMA, mitico museo d’arte moderna.

I venti ancheggiano in tanghi vaganti. Ha senso la frase appena scritta? L’ho composta usando tutte le lettere, alcune più volte, di Vincent Van Gogh. Dentro al MoMA vado subito a sprofondarmi nel divanetto dirimpetto alla “Notte stellata” di Vincent, vero esempio di creazione. Van Gogh dipinge il quadro dalla finestrella del manicomio di Saint Remy, Provenza. Vincent è internato perché abbarbicato con le unghie all’orlo dell’abisso della follia. È già sul punto dell’uccisione, propria o altrui, perché vive da quasi-morto e non percepisce più nemmeno il senso del dolore (si è tagliato l’orecchio senza soffrire). Però, nel manicomio, dove rimane 12 mesi tra il 1889-90, Vincent risale a due tacche di vitalità.

Nella tela il cipresso è composto da due fusti che stanno ballando un tango. Il paesino pulsa delle luci aranciate delle finestre. Il campanile svetta fino a punzecchiare il cielo, abitato da un gigantesco ricciolo blu. Le montagne sono onde pettinate da un rastrello. I turbini del maestrale circoscrivono le stelle che mandano bagliori argentati/bianchi/zafferano/mandarino. La luna, color zucca, è adagiata su un tondo giallo che rimanda al connubio indissolubile col sole.

Mi sovviene il pezzetto di una lettera di Vincent al fratello Theo (1889): “Proprio come prendiamo il treno per andare a Tarascon o a Rouen, così prendiamo la morte per raggiungere una stella”.

Pochi mesi dopo essere uscito dal manicomio, il 29 luglio 1990, ad Auvers-sur-Oise, Vincent si suicida.

David Foster Wallace pubblica negli anni successivi romanzi, racconti e saggi sempre pletorici e discretamente bizzarri. Discretamente è avverbio che metto io; il successo planetario indica lettori più entusiasti. David salta da uno psicofarmaco all’altro, dopo le normali assuefazioni. Tenta anche l’elettroshock. Scrive: “La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla stessa finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme”. David s’impicca nel patio della sua casa di Claremont, California, il 12 settembre 2008.

Finisco di scrivere questo docu-racconto newyorkese alle ore 19 del 9 febbraio 2021, senza aiuti di sostanze psicotrope. Il finale è però troppo triste, quasi angosciante. Adesso vado a stapparmi una bottiglia di Prosecco millesimato. Cin cin, ragazzi/e. Alla salute, soprattutto quella mentale.

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