Ivan Dimov, solo nell’oceano contro le microplastiche
«Non si può capire il problema se non si naviga per giorni. Io che affronto i mari in lungo e in largo e immergo la prua della mia barca nelle onde oceaniche, sono sempre meravigliato di quanta plastica vi sia. Ogni anno sempre di più». Cosi ci racconta Ivan Dimov, navigatore ormai italiano di adozione, ma proveniente da Sofia in Bulgaria, già esperto di circumnavigazione del globo e che si sta preparando per altre sfide come il Global Solo Challenge, il giro del mondo a vela, in solitaria, senza assistenza e completamente organizzato senza plastica a bordo. Infatti l’acqua necessaria per bere sarà quella del mare. La stessa che servirà anche per il cibo. Vista la lunga permanenza in navigazione la stiva verrà riempita di scatolette e, soprattutto, di liofilizzati. Questi ultimi richiedono meno spazio ma necessitano di acqua, che è sempre quella del mare. Essa viene desalinizzata e poi, grazie ad un brevetto italiano di Ecoplus Italia di San Lazzaro di Savena (BO), viene sanificata e purificata, con l’aggiunta di sali minerali essenziali per l’organismo umano.
Dunque nel Global Solo Challenge Ivan Dimov farà giro del mondo in solitaria, partendo e tornando dalla Spagna, tra Capo di Buona Speranza in Sudafrica, Capo Leeuwin in Australia e Capo Horn in Sud America – e non porterà con sé bottiglie d’acqua, in particolare di plastica. Lui invece la plastica questa volta la raccoglierà dal mare. E ne raccoglierà tanta, «il motto sarà salviamo il pianeta e in fretta» dice Ivan. Infatti l’ultimo report di The New Plastic Economics della Fondazione Ellen MacArthur, in collaborazione con il World Economic Forum ha evidenziato quanto sia impellente intervenire. La degradazione della plastica nell’ecosistema marino ha infatti dei numeri imponenti: ogni anno almeno 8 milioni di tonnellate plastica finiscono negli oceani per un totale immesso ad oggi di 150 milioni di tonnellate di plastica.
«Il mondo si sta distruggendo – racconta ancora Ivan – e io voglio fare tutto quello che posso per fermare l’inquinamento. Perché sia d’esempio nella speranza che altri lo seguano, soprattutto per sensibilizzare a non buttare la plastica nei mari, ma anche nei fiumi, che poi finiscono lo stesso in mare aperto». E aggiunge «Mentre sarò in navigazione raccoglierò i rifiuti galleggianti di plastica e li porterò in barca. Ma che poi si riempirà. Allora li metterò dentro una rete che poi verrà chiusa e lasciata al galleggiamento in mare, con una boa e un segnalatore, come quello per il salvataggio delle persone, e un gps. Le plastiche così non si disperderanno e saranno facilmente recuperati da imbarcazioni più grandi di passaggio in quell’area per poi essere smaltiti correttamente a terra».
Non è solo una questione di pulizia. La plastica si decompone per effetto dei raggi ultravioletti, del vento, delle onde, dei microbi e della temperatura, sciogliendosi in frammenti sempre più piccoli. E si formano microparticelle di plastica: le microplastiche. Esse sono pericolosissime in ambiente marino, perché nel loro percorso vengono ingerite anche dal plancton, dai pesci e dai molluschi. Così entrano nella “catena alimentare” ed arrivano nei nostri piatti, diventando così un potenziale rischio per la salute umana.Sono state trovate microplastiche anche nelle arterie e, di recente, per la prima volta, ne sono stati dimostrati i danni che causano al sistema cardiovascolare, grazie allo studio italiano dell’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli.
(https://vanvitellimagazine.unicampania.it/index.php/primo-piano/salute/1389-microplastiche-nelle-placche-delle-arterie-ecco-perche-raddoppia-il-rischio-di-infarto-e-ictus)
«Siamo lungo la linea del non ritorno se non invertiamo la rotta diventeremo come isola di Pasqua» ci mette in guardia Ivan.
L’Isola di Pasqua, o Rapa Nui (in lingua nativa “grande isola/roccia”), è una remota isola vulcanica della Polinesia, appartenete al Cile, famosa per i Moai, le grandi facce di pietra.
Quando l’isola venne scoperta dagli europei era il giorno di Pasqua (da qui il nome occidentale) del 1722. Non c’erano alberi, solo resti di palma gigante. E non c’erano tanti indigeni quanto ci si potesse attendere da una civiltà in grado di costruire giganti come i Moai. Questi ultimi per la loro costruzione necessitavano di grossi tronchi di alberi, come appunto quelli di palma gigante. E così nacque la teoria “dell’ingordigia umana”. Ovvero che per costruire sempre più statue, la popolazione di Rapa Nui abbatté tutti gli alberi causando la progressiva desertificazione del suolo, e la propria fine.
«E se non smetteremo di inquinare i mari con la plastica, non basterà più solo toglierla» aggiunge Ivan Dimov a bordo della sua barca a vela Endurance nominata Blu Ibis di 37 piedi, poco più di 11 metri «che sto rinforzando per aumentarne la stabilità, suddividendone gli interni in zone stagne (riserva di galleggiabilità) e adottando migliorie per ridurre dello sforzo di manovra (compensazione di timone) per la mia nuova circumnavigazione del globo in solitaria» continua Ivan che navigherà per molti mesi «ci vogliono dai 6 ai 9 mesi per fare il giro del mondo in barca, mentre per andare sulla Luna la storica navicella Apollo 11 impiegò solo 3 giorni» – e prosegue – «quando sei solo in mezzo all’oceano il cervello non viene influenzato da orari e da scadenze e ritmi della città. Ci sono solo rumori naturali e il cervello si stanca di meno, perciò si sente meno il bisogno di dormire. E si dorme per brevi periodi, mezz’ora, un’ora, specie di notte. Anche perché dovrò controllare la navigazione, perché sarò solo, anzi solo con gli abitanti marini. Pesci e tartarughe, ma anche balene e delfini che possono danneggiare la barca, come già avvenuto e in modo grave in passato, costringendomi al ritiro».
Durante la sua navigazione Ivan raccoglierà campioni di acqua destinati alla ricerca universitaria. E raccoglierà tutti i tipi di plastica monouso presenti nel mare, ci saranno anche plastiche provenienti da materiale da pesca, come le reti rimaste incagliate e poi abbandonate. Esse rappresentano il 27% del totale dei rifiuti marini, il 49% è costituito dalle plastiche monouso, il 6% da altre plastiche ed il 18% da rifiuti non plastici, ci dice la Commissione europea. Mentre dai dati raccolti il Parlamento europeo ci lancia un allarme: nel 2050, stante le attuali condizioni, il peso della plastica riversata nei mari supererà quello dei pesci.
I mari e gli oceani vanno preservati non solo per l’inquinamento dalla plastica, ma anche il per il riscaldamento del pianeta dovuto al cambiamento climatico. «L’oceano è il luogo in cui va a finire la maggior parte del calore derivante dai cambiamenti climatici, esattamente il 93%» – evidenzia nel suo volume (Blue Machine, How the ocean shapes our world) la fisica, oceanografa inglese e docente alla University College di Londra, Helen Czerski – «ma è anche vero che l’oceano ci sta aiutando con il cambiamento climatico, perché assorbe molta anidride carbonica. Farebbe, molto, molto più caldo se non fosse stato per l’oceano. Quindi l’oceano può aiutarci tanto per il climate change, ma solo se lo trattiamo bene, e al momento non lo stiamo facendo».
Vincenzo Basili