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Una leonessa in città

N. 88- Aprile 2024

 

 

 

Una leonessa in città

Fino al 31 dicembre 2023 un’ospite di eccezionale rilievo troverà dimora presso il Museo Archeologico di Bologna, grazie al progetto espositivo Sekhmet, la Potente. Una leonessa in città, a cura di Daniela Picchi.
L’iniziativa è resa possibile dalla generosa collaborazione con cui il Museo Egizio di Torino ha concesso in prestito uno dei suoi capolavori più rappresentativi: una statua colossale di Sekhmet, materializzazione terrestre della temibile divinità egizia con testa di leonessa e corpo di donna, di cui il museo torinese conserva una delle più grandi collezioni al di fuori dell’Egitto, composta da 21 esemplari.

La collezione egizia di Bologna conserva un busto di statua che rappresenta la dea a testa di leonessa e corpo di donna Sekhmet. Come la stragrande maggioranza dei reperti egizi del Museo Civico Archeologico, anche questo busto appartenne alla raccolta di antichità del pittore Pelagio Palagi e arrivò in città nel 1861.
I documenti di archivio sino ad ora rintracciati non permettono di stabilire da chi e quando Palagi l’abbia acquistato, mentre possiamo affermare con certezza che la scultura fu fatta eseguire dal faraone Amenhotep III per il “Tempio dei Milioni di Anni” a Tebe Ovest in occasione del suo giubileo. Ad oggi le statue di Sekhmet riconducibili a questo sovrano, rinvenute in area tebana o rintracciate nelle collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, sono oltre 700, alcune finite e altre ancora in corso di lavorazione.
Il busto di Bologna appartiene al gruppo delle sculture finite, e cioè incise, polite e verosimilmente dipinte in antico.

Divinità dalla natura ambivalente, al contempo di potenza devastatrice e dispensatrice di prosperità, Sekhmet, ovvero “la Potente”, venne raffigurata in varie centinaia di statue per volere di Amenhotep III, uno dei faraoni più noti della XVIII dinastia (1388-1351 a.C.), allo scopo di adornare il recinto del suo “Tempio dei Milioni di Anni” a Tebe Ovest.

Alcuni studiosi ipotizzano che il gigantesco gruppo scultoreo fosse composto da due gruppi di 365 statue, una in posizione stante e una assisa per ogni giorno dell’anno, così da creare una vera e propria “litania di pietra”, con la quale il faraone voleva pacificare Sekhmet tramite un rituale quotidiano. La regolarità dei riti in suo onore servivano infatti a placarne l’ira distruttrice che la caratterizzava quale signora del caos, della guerra e delle epidemie, trasformandola in una divinità benevola e protettrice degli uomini


Una dea protettrice
Nella collezione egizia del Museo Civico Archeologico di Bologna è presente il busto di una di queste sculture che – grazie al confronto con la Sekhmet seduta in trono proveniente dal Museo Egizio di Torino – potrà così riacquistare, almeno idealmente, la propria integrità creando una proficua occasione di confronto e ricerca scientifica.
La statua sarà esposta nell’atrio monumentale di Palazzo Galvani e andrà ad arricchire un importante repertorio di materiali lapidei, sia di proprietà civica, tra i quali un raro busto in marmo di Nerone, sia di proprietà statale, che la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara ha depositato presso il museo.

Dall’alto dei suoi 2,13 metri di altezza, Sekhmet potrà così accogliere il pubblico e introdurlo alla visita della collezione egizia, continuando a svolgere quella funzione protettrice per la quale era stata commissionata da Amenhotep III mentre, al suo cospetto, il visitatore potrà rivivere la stessa emozione che il sacerdote dell’antico Egitto doveva provare quando entrava nel cortile del Tempio per pronunciare il nome della “Potente” e invocarla nelle sue preghiere per placarla e propiziare ogni estate la fertile esondazione delle acque del Nilo.

Il pantheon egizio conta numerose divinità femminili associate al culto solare e una di queste è Sekhmet, il cui nome significa “la Potente”. La temibile dea era considerata dagli Egizi l’Occhio del Sole, emblema del potere divino che tutto vede, la Furia nel mondo degli dei, che si erge sotto sembianze di serpente Ureo anche sulla fronte dei sovrani, proteggendoli.

Contro la peste
Come racconta il Mito della Vacca Celeste, attestato per la prima volta durante il regno del faraone Tutankamun (1333-1323 a.C.), il demiurgo Ra aveva inviato Sekhmet sulla terra per punire gli uomini in rivolta contro gli dei. La leonessa, inebriata dall’odore del sangue, avrebbe annientato l’intero genere umano se Ra non fosse intervenuto nuovamente, su suggerimento del dio della saggezza Thot, facendo versare in un lago una grande quantità di birra colorata con ocra rossa. Attratta dal colore e pensando si trattasse di sangue, la dea ne bevve sino ad ubriacarsi, dimenticandosi del precedente odio verso gli uomini e trasformandosi in Hathor, il principio femminile creativo, al quale era associato anche l’arrivo della piena del Nilo in Alto Egitto. Tale trasformazione non sorprende, se si considerano le divinità egizie come manifestazioni diverse di un più ampio concetto di divino.


La pericolosa e furente Sekhmet, oltre a poter inviare sulla terra pestilenze e malattie, adeguatamente adorata, era anche in grado di prevenirle e guarirle, tanto da avere un sacerdozio, quello dei “puri sacerdoti di Sekhmet”, dedito alla cura delle vittime colpite da afflizioni invisibili e apparentemente divine come la peste (definita anche “l’anno di Sekhmet”).

La manifestazione di culto più eclatante nei confronti di questa divinità leontocefala si deve al faraone Amenhotep III (1388-1351 a.C.), che, in occasione del suo giubileo, la celebrazione del trentesimo anno di regno, trasformò le litanie innalzate per placare Sekhmet negli ultimi cinque giorni di ogni anno, i Giorni dei Demoni, in una impressionante litania di pietra, facendo scolpire oltre 700 sculture rappresentanti la dea in posizione stante e assisa in trono. Per quanto le statue siano state rinvenute in diverse aree templari tebane (numerose nel Tempio di Mut a Karnak, Tebe Est), molti studiosi ritengono che la loro collocazione originaria fosse Kom el-Hattan, il “Tempio dei Milioni di Anni” di Amenhotep III a Tebe Ovest, e in particolare il cortile solare al suo interno. In tale maniera il sovrano si garantiva la protezione della dea in terra e partecipava del periplo divino del sole del quale Sekhmet era una manifestazione.

Il pigmento blu
Dal 2017 Daniela Picchi, curatrice della Sezione Egizia di Bologna, è membro del comitato scientifico della Rivista del Museo Egizio (RiME), pubblicata on-line a cadenza annuale, che promuove, raccoglie e diffonde le ricerche su tutti gli aspetti della collezione del Museo Egizio di Torino e sui siti archeologici da esso indagati oggi e in passato, nonché studi su argomenti aventi una rilevanza indiretta per la collezione.

Nel 2020 il Museo Civico Archeologico di Bologna si è reso disponibile a far scansionare i propri rilievi della tomba di Horemheb e di Ptahemwia provenienti dalla necropoli di Saqqara a integrazione dei modelli 3D dei rispettivi contesti funerari elaborati dal 3D Survey Group del Politecnico di Milano che collabora con il Museo Egizio di Torino.

Nel 2021 il Museo Egizio di Torino e il Museo Civico Archeologico di Bologna hanno aderito al gruppo di lavoro “Blu Egizio Network (BLUENET)”, che rientra nelle attività del Centro linceo di ricerca sui beni culturali “Agostino Chigi” presso Villa Farnesina. Il gruppo di lavoro si prefigge di contribuire fattivamente al progredire degli studi nel campo del blu egizio, il più antico pigmento sintetico della storia, esaminandone l’utilizzo dall’antico Egitto al Rinascimento. Il museo di Bologna intende avviare un programma di indagini diagnostiche dedicato alla propria collezione egizia, condividendo le medesime linee di ricerca e metodologie d’indagine del Museo Egizio di Torino al fine di una più efficace lettura e confronto dei risultati diagnostici ottenuti.

Le foto di questo articolo sono tratte dal sito del Museo Civico Archeologico di Bologna

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