Promenade parigina con Degas

“Parigi è sempre una buona idea”, cinguetta Audrey Hepburn nel personaggio di Sabrina. Anche perché, male che vada, “Respirare Parigi conserva l’anima”, sentenzia Victor Hugo. A Parigi è poi difficile non dare un senso straordinario al tempo: “è un posto così romantico che anche andare a prendere un sandwich diventa un momento magico e irripetibile”, sostiene Kate Hudson.
A Parigi hanno impresso le loro orme re, regine, favorite e sfavorite, un imperatore grande e uno piccolo, rivoluzionari, un campanaro gobbo, una pulzella, templari da abbrustolire, letterati, attori e attrici, pittori e pittrici, un ladro gentiluomo e un ladro di Gioconda, cantanti dalla erre tremula, fumettisti, razionalisti, esistenzialisti, nichilisti, stilisti, registi, ciclisti orchitici, tennisti da Roland Garros, calciatori strapagati, playboy “inviagrati”, pugili, piloti e fantini. A Parigi hanno lasciato orme anche i fantasmi, quello dell’Opéra, quello del Louvre, quello di Jacques de Molay in Notre Dame. A Parigi si può scegliere via via quali impronte seguire e il tempo si tinge sempre di conoscenza e leggenda.
Guido Berti è un venticinquenne versiliano, magro come lo Spirito Santo, dal volto più lungo in verticale che in orizzontale, stempiato anzitempo. Si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Carrara. È prepotentemente, presuntuosamente, pervicacemente sicuro d’essere pittore, anzi un Grande Pittore. Guido ha una devozione per Edgar Degas, di cui ammira il miracolo di aver fissato il movimento. L’ossimoro “movimento fisso”, cioè fermo sulla tela ma senza perdere il dinamismo del moto, si addice ai quadri di Degas che raffigurano cavalli in corsa e soprattutto le celeberrime ballerine. Il miracolo è ancora più fenomenale se si pensa che i movimenti dei cavalli e quelli delle danzatrici sono accentuati rispetto a una normale ottimizzazione delle forze. (Proviamo qui una spiegazione mutuata da Paul Valéry: la maggior parte dei movimenti volontari hanno un’azione esteriore per scopo, indirizzata a raggiungere un luogo o un oggetto. L’azione implica forze che vengono quasi sempre dosate, economizzate per un risultato soddisfacente. I movimenti dei cavalli negli ippodromi sono invece accelerati, con profusione svantaggiosa di forze. Così la danza, non prevedendo momenti di quiete ed esagerando in roteazioni/salti/scrollate di capelli, è dissipazione gratuita di energie).
Tra i turisti e la Danceuse
Guido dorme in Rue Bonaparte, a 50 metri dall’École des Beaux-Arts. La mattina osserva la Scuola dal cancello chiuso: tre palazzi neoclassici racchiudono un cortile color pastis. Tra le 450000 opere d’arte detenute dall’École ce ne sono anche di Degas, che qui studia nel 1855, all’età di 21 anni.
Pochi passi e il Berti svolta à gauche, sulla Rive Gauche. La Senna bluastra è solcata da un bateau–mouche, coi turisti attaccati ai finestroni. Il vento, in polemica con la primavera, ha affittato una tramontana. Fa freddo, ma i contorni del lungofiume sono puliti e il cielo è così chiaro che ci si possono vedere gli angeli. Guido, giaccone chiuso dalla zip fino alla gola, cammina con passo di daino fino all’eclettica Gare d’Orsay.
Il nostro protagonista entra nella vecchia stazione-albergo, riconvertita a contenitore d’arte nel 1986. Lo sorveglia dall’alto un grande orologio, uso a osservare treni fermi sui binari. Ferro e vetro formano una volta da cui la luce entra copiosa, proprio come nelle intenzioni di Gae Aulenti. Guido riceve l’omaggio floreale di Monet (papaveri), Renoir (rose), Van Gogh (fritillarie), ma il ragazzo cerca nervosamente un Degas. Per la precisione L’étoile, che alcuni cataloghi sottotitolano Danceuse sur scène.

Trovato il quadro, ci si siede davanti, su un divano color calvados. L’étoile è una ballerina quindicenne, viso ancora tondo da bambina, arrossato dal belletto. Collo diafano in contrasto col collarino nero che si prolunga a sinistra con le trecce di uguale colore, ondeggianti come alghe scure. Braccia di un bianco tendente al giallo pallidissimo. La scollatura disegna una U sul seno acerbo. La spumeggiante garza del tutù fluttua come l’ombrello di una medusa rosata. Sui capelli fiammeggia un diadema di rose. Altre rose cingono la vita.
L’étoile è inquadrata dall’alto, con uno scorcio nuovo dal punto di vista pittorico: Degas dice di voler guardare i suoi soggetti dal di sopra, come granchi sulla sabbia. Sullo sfondo il sipario è un garbuglio di vampe arancioni: dietro sono esiliate ballerine meno brave e un uomo in completo nero (il maestro di danza o il padrone, visto che molte danzatrici sono costrette a prostituirsi).
Dell’étoile si vede una gamba soltanto, quasi perpendicolare al pavimento color cognac, appena sollevata da terra. L’altra gamba, nascosta dal tutù, è per forza slanciata indietro. La ragazza letteralmente vola, sorella dei pochissimi ballerini che hanno letteralmente volato: Nijinsky, Nureyev, Michael Jackson, Polunin. Le braccia sono ali d’airone.
Guido Berti estrae dall’interno del giaccone un quadernetto e un lapis. Schizza l’étoile.
Edgar Degas è allievo di Louis Lamothe, a sua volta apprendista di J.A.D. Ingres, quello che afferma: “la matita deve avere sulla carta la stessa delicatezza di una mosca che erra sopra un vetro”. La leggerezza nel disegnare è talento puro, genetica/reincarnazione/fenomeno. Una mano tende sempre a calcare, a microfibrillare, a indurirsi: muoverla con la finezza di un insetto è capacità singolare.
Poi ci sono gli occhi che agiscono indipendentemente ma che devono collaborare con la mano. I brevi spostamenti degli occhi individuano i contorni e, mentre conservano la visione, la mano, dolcissima, traccia. Ogni occhiata a un modello diventa ricordo istantaneo e a questo ricordo la mano, velocemente, va ad adattare la sua legge di movimento.
Il miele dell’Opera
Riposto il quaderno, Guido passa dal bar del museo e compra una baguette farcita al jambon. Fuori, attraversa la Senna su un ponte pedonale: a metà si vede la Tour Eiffel, con quella sagoma che Vicente Huidobro chiama chitarra del cielo. Oltrefiume, il Berti entra nelle Tuileries, giardini commissionati da Caterina de’ Medici, che prendono il nome dalle precedenti fabbriche di tegole (tuiles). L’erba è color Perrier, una giostra con carrozze azzurre gira al ritmo della voce di Yves Montand. Delon e Belmondo giocano a bocce su un vialetto/un principe del Mali vende narcisi gialli/un cinesino sfreccia sui pattini/due bambini bielorussi fanno una partita a scacchi su un tavolo di legno. Il nostro pittore mangia il suo panino su una seggiola di plastica e poi beve da una fontana a forma di delfino.
Uscito dal parco su Place de la Concorde, Guido fissa l’obelisco di Luxor, 23 metri di granito rosa, piantato laddove, durante la Rivoluzione, brilla la lama della ghigliottina. Su per Rue Royale, dopo aver sorpassato il ristorante Maxim’s, il Berti resiste a varcare la soglia della pasticceria Ladurée, fucina culinaria di macarons (il macaron, che non è Macron che ha comprato una vocale, è composto da due dischi di meringa alla mandorla inframmezzati da marmellata o da crème ganache, mescolanza di panna/cioccolato/burro).
Place de la Madeleine è dominata dalla chiesa omonima, interamente circondata da colonne corinzie. Guido non si sofferma più di tanto davanti al ristorante Lucas Carton, nei cui locali Marcel Proust vive l’infanzia. Alla vetrina dell’Ēpicerie Fauchon il Berti riserva un rapido sguardo, giusto per vedere i vasetti di miele raccolto sui tetti dell’Opéra. Proprio l’Opéra Garnier viene raggiunta dopo scarpinata su Boulevard des Capucines, strada che nel 1873 ispira Claude Monet.
L’Opéra inaugura nel 1875 lo stile Secondo Impero (o Napoleone III), connubio ardito di barocco e classicismo. Guido esplora l’interno: scalone maestoso/palchi d’oro/sala da 2200 poltrone/cupola a 18 metri con affresco di Marc Chagall/lampadario da 7 tonnellate disegnato da Charles Garnier. Fino al 1888 Degas frequenta l’Opéra, sia da spettatore che da visitatore privato. Un amico direttore d’orchestra gli permette l’ingresso libero: così Edgar può lungamente osservare e dipingere le ballerine a lezione, negli esercizi preparatori e nelle pause di riposo. Il ritrattismo di Degas si allarga anche agli orchestrali, alle cantanti, agli abbonati delle prime file.
A tavola con Edgar
Guido continua la passeggiata per Rue de la Chaussée d’Antin e costeggia Galeries Lafayette, le antenate di tutti i supermercati, costruite nel 1895 per creare un negozio di “frivolezze” (“la frivolezza è la miglior risposta all’ansia”, asserisce Jean Cocteau). Alla Place d’Estienne d’Orves le panchine, tra alberi color chartreuse, accolgono lettori di libri. La chiesa della Santissima Trinità, influenzata dal Rinascimento italiano, ha facciata con nicchie e campanile di 65 metri.
All’altezza dell’abside, il Berti prende à droite Rue Pigalle. Davanti allo sfavillante Sexodrome Guido fatica a divincolarsi dall’insistenza di un buttadentro. Un Depardieu, enorme nella giacca aderente, gli propone il biglietto per lo spettacolo erotico, a un prezzo che si abbassa ogni trenta secondi. Il promoteur della lussuria lo afferra per le spalle e cerca di avvicinarlo all’entrata, annunciando spogliarelli di minorenni che la Brigitte Bardot del 1960 al confronto è una cozza bionda.
Una laterale di destra è Rue Victor-Massé. Guido sorride sapendo che il suo pittore preferito abita qui, dapprima al n° 13 nel 1859, poi al n° 37 dal 1890. In queste annate, chi visita casa Degas deve essere grande estimatore dell’inquilino. Edgar fa di tutto per risultare antipatico: sempre imbronciato, scortese, fastidiosamente misogino, provocatoriamente giansenista. Paul Valéry è un fan di Edgar e sopporta la spigolosità del suo carattere andando spesso nell’abitazione al 37. Lo studio è nel sottotetto, polveroso e con un finestrone non lavato. Vi si stipano bacinelle/vasca da bagno di zinco opaco/asciugamani usati/cavalletti carichi di fogli con teste e torsi a carboncino. Valéry racconta che “lungo la vetrata, vagamente percorsa dal sole, corre una mensola ingombra di scatole, bottiglie, matite, mozziconi di pastello e cose senza nome che possono sempre servire”. Valéry medita che “il lavoro dell’artista è un lavoro di tipo antichissimo. L’artista è un sopravvissuto, un operaio, un artigiano d’una specie in via d’estinzione, uno che fabbrica in camera sua, usa procedimenti personali ed empirici, vive nel disordine e nell’intimità dei suoi utensili, vede quel che vuole e non quello che lo circonda, utilizza vasi rotti, ferraglie domestiche, oggetti condannati”.
Al primo piano dell’alloggio in Rue Victor-Massé, Degas sistema il suo museo: quadri di Corot, Manet, Ingres e studi di ballerine in tutù verdi/blu/gialli. Nella sala da pranzo, al secondo piano, Valéry dice di aver “tristemente desinato parecchie volte”. I commensali vengono serviti dall’unica convivente del pittore, la domestica Zoe, anziana donna dal grosso ventre e dagli occhiali tondi. Degas teme l’infiammazione e l’ostruzione intestinale: mangia sempre maccheroni insipidi e cotti in acqua pura, vitello al naturale, una marmellata asperrima di arance. A fine pasto fuma una sigaretta dura come il manico di un pennello.
La cameriera del bistrot
Ancora quattro passi e Guido raggiunge Place Pigalle, coronata da palazzi color grand marnier, incappucciatidall’ardesia bluastra e impennacchiati di comignoli. L’imbocco della metropolitana è segnalato da due steli che reggono lampioni arancioni e l’insegna liberty. Lo stabile al n° 9 è sede tra il 1880 e il 1900 del Cafè de la Nouvelle Athènes, punto d’incontro di pittori (Van Gogh, Manet, Zandomeneghi), scrittori (Zola), fotografi (Sescau). Degas è spesso sulla terrazza del Cafè, da cui scruta i passanti. All’interno del locale dipinge L’absinthe.

Il Berti punta un bistrot che sorge all’incirca sui vecchi mattoni della Nouvelle Athènes. Un tendone champagne protegge una vetrata violacea. Il bancone in legno scuro è di fronte all’entrata, con rubinetti-cobra impennati. I lampadari sono dodici bocce verde chiaro, decorate da qualche ragnatela. I tavoli, disposti sul perimetro del locale, fingono un marmo bianco che ricorda il vero marmo immortalato da Degas insieme ai due bevitori di assenzio.
Il nostro protagonista si siede sul lato destro, spalle al muro: lo spazio che lo separa dai dirimpettai è ampio e potrebbe essere accaparrato da una coppia di attori in vena di recita. Guido posa sul tavolo il quadernetto su cui ha disegnato l’étoile.
Una cameriera si dedica al Berti. Ha gambe lunghe, coperte fino a mezza coscia da una sottanina color pernod. I suoi fianchi distano tra loro meno che l’ombelico dal pube: li si potrebbe toccare entrambi con pollice e indice divaricati. I seni sono liberi e appena tremolanti sotto la maglietta bluette. I suoi occhi bucano. I capelli sono mossi come se un vento atlantico ci stesse giocando. Un braccialetto d’oro gira molto largo intorno al polso. La ragazza è nera.
–Une grosse bière s’il vous plait- chiede Guido e precisa: -Duchesse Anne Lancelot- (Birra bionda dedicata ad Anna di Bretagna, due volte regina di Francia/gusto dolce e amarognolo al contempo/brevemente trattenuta in tini di legno/bevibilissima).
La ragazza va e torna con un “calice a chiudere” imbacuccato di schiuma.
Una musica di sottofondo si stacca da un amplificatore nascosto: le note si impastano col dialogo acuto di due signore dall’udito indebolito/coi motti di sfida di quattro giocatori di carte/coi proclami spezzettati di un ubriaco sconnesso dall’artrite/con le voci squillanti di studentelli in fuga da qualche lezione/con l’uggiolio di un cane legato a una sedia/col risucchio di un mangiatore di ostriche. Ad un tratto la musica si fa più chiara, approfittando al volo di un improvviso abbassamento del rumore attorno.
La cameriera si mette al centro del bistrot, braccia aperte a spaventapasseri. Il parlottio della sala si chiude a ombrello. La musica diventa nitida e si palesa il Boléro di Maurice Ravel.
La ragazza gira su se stessa con le braccia tese in alto a coprire le orecchie, poi le congiunge per formare un triangolo sulla testa. Quindi fa un saltello a destra e uno a sinistra.
Ogni avventore punta il mirino del naso verso l’improvvisa danzatrice.
La ragazza spicca due salti da pantera, con le gambe parallele al pavimento. Negli atterraggi scodinzola le anche.
La musica si ingrossa e la cameriera si spinge a sfiorare i clienti con finte carezze e movimenti flessuosi. Manda baci dalle punte delle dita.
La ragazza compie addirittura due volte la ruota sulle mani. Quindi si piazza su un lato dell’estemporanea pista e, mantenendo un ritmo di danza seppur rallentato, si sfila il braccialetto. Dalla concavità del monile tira fuori una penna arrotolata di colombo, tinta di cobalto. Se la infila tra i capelli crespi.
La musica persiste e la ragazza inanella vortici alternati a brevi corsette. Poi, indietreggiando con la schiena arcuata, va a urtare il tavolo di Guido. Il calice traballa e mezza birra evade. Il quadernetto dei disegni si impregna.
La ragazza non si cura dell’impatto e continua l’esibizione che pare il coronamento di migliaia di prove. Il Boléro sale a impegnare tutti gli strumenti dell’orchestra. La ballerina nera si scatena: cuce piroette vertiginose, ribadisce una ruota sulle mani, infila qualche inspiegabile passo di charleston. Quando si prevede l’accordo terminale la ragazza si slancia in un balzo e conclude con una spaccata sul pavimento. In questa posa trionfale rimane fino allo spegnersi della musica, che viene sottolineato dal reclinamento della testa.
Pubblico tutto in piedi. Avvampano applausi. Piovono gentilezze banali. Uno degli studenti trova dei fiori appassiti e li tira sulla pista.
La ragazza si alza e ringrazia con sorrisi e brevi inchini. Ansima nel seno balbettante.
Poi agita la mano aperta per indicare che lo spettacolo è terminato.

Guido è trasognato. Il suo sguardo è perso tra i lampadari verdini. D’improvviso la cameriera gli si avvicina e gli svassoia un nuovo calice. Gli dice:
-Questa la offro io. Scusami se prima ti ho rovesciato la birra-
-Sei stata superlativa- complimenta Guido.
-Grazie- risponde la ragazza e aggiunge: -Sai, da piccola volevo fare la ballerina-
Guido si gratta una tempia e sentenzia: -Quando si diventa grandi troppo presto, molte cose dentro rimangono piccole. Ma è quando queste piccole cose riescono a fuggire che salta fuori la bellezza-
Guido beve un sorso, poi abbassa gli occhi. In un soffio dice:
-Io da piccolo volevo diventare un disegnatore di ballerine-
Guido apre il quadernetto per mostrare l’étoile disegnata ma la birra versata ha sbavato i tratti di matita. Guido strappa allora la pagina, la appallottola e la tira al mugolante cane vincolato alla sedia.
La ragazza si scola un quarto di una birra che ha ancora sul vassoio, poi appoggia un bacio bagnato sulla guancia di Guido.
E, prima di andarsene, la ballerina infila la sua penna color cobalto tra la lana incredula del maglione di Guido.
Carlo Maria Milazzo