L’oasi di Siracusa

A Catania i pomeriggi di luglio e agosto fa quel caldo che i marescialli si mettono a torso nudo nei cortili delle caserme. L’anguria è stata sbranata e sul tavolo rimangono bucce verdi a forma di caravelle, attaccate da mosche mannare. Non tira un filo d’aria neanche sulla porta che s’apre sul balcone.
Il capofamiglia Salvo, maggiore dell’esercito emigrato al Nord e sceso come tutte le estati, decide che bisogna cercare un po’ di frescura.
È il 1973. Salvo mette in moto la 128 verde carciofo, con quelle frecce arancioni che sembrano ferite curate col mercurocromo. Nonostante la calura che le galline rischiano di deporre uova sode, Salvo mette guantini di pelle che lasciano scoperte le falangi: col sudore il volante potrebbe scivolare.
Sulla 128 sale la moglie Teresa, diversamente meridionale e quindi…del Nord! Poi prendono posto le sorelle Anna e Giuseppa, l’una zitella e l’altra vedova: vestite di nero, stando al sole, andrebbero in autocombustione in 5 minuti. Poi monta il figlio Paolo, diciassettenne.
Il posto al fresco è a Siracusa.
Siracusa?
Sì, Siracusa, 65 km da Catania.
Non esiste un posto fresco più vicino?
EVIDENTEMENTE NO.
La 128 si allontana alla chetichella dalla sorveglianza dell’Etna, col pennacchio di fumo sospettoso. Sulla sinistra scorre La Playa, spiaggia bionda lunghissima. A destra si accalca una folla di agrumeti.
Capannelli di oleandri osservano senza coinvolgimento emotivo (smaglianti i fiori rossi/rosa/bianchi, ma con un odore simile al fiato di un vecchio che abbia mangiato ‘a cipudda).
Alla periferia di Augusta entra dai finestrini puzza di petrolio, un misto di uova marce e fogna tracimata (secondo il sindaco locale non trattasi di puzzone ma di leggera molestia olfattiva).
Il luogo fresco è all’isola di Ortigia, ‘u scogghiu. Lasciata la 128 in un parcheggio fronte mar Ionio, Salvo e comitiva camminano sulla Marina che costeggia il Porto Grande. La nave-traghetto per Malta poggia il culo sulla larga banchina. Sui bastioni spagnoli è adagiato il passeggio Adorno, pensile/ottocentesco/sontuoso negli antichi alberghi rosa e dorati.
Il posto a temperatura piacevole è alla fine dei 200 metri della Marina. È un piccolo giardino, pesantemente ombreggiato da quattro ficus secolari. I tronchi hanno diametri di 15 metri e sono contornati da radici che si sono fatte un viaggio fino ai primi rami e poi sono tornate giù a interrarsi. Il fogliame è più ampio di un padiglione fieristico: il sole non l’ha mai attraversato, nemmeno pagando un ticket alla Dea Flora.
Dietro gli alberoni si alza il cilindro in pietra della fonte Aretusa, che spande pure lei frescura.
Salvo, moglie, sorelle occupano due panchine da cui si vede il mare, blu scuro chiazzato da macchie gialle di raggi solari annegati. Non si alzano per 2 ore, a parte il breve accostamento al chiosco-bar che staziona sotto il primo ficus. I 4 bevono seltz, limone verdello e sale.
Il figlio Paolo, pur senza il gusto del torrido, gira per un paio di orette nel cuore di Ortigia.
La gita al refrigerio siracusano avviene, ebbene sì, almeno tre volte a settimana.
Paolo ha i capelli neri da beat-generation, fino alle spalle. Occhiali tondi da Puffo Quattrocchi. Tronco senza la nozione di pancia. Brufoli-lampadine schiacciati tra le dita e, dopo lo zampillo del pus, cauterizzati con alcol ustionante. Bermude provenienti da jeans consunti e tagliati alle ginocchia.
Nel suo vagare cittadino il ragazzo si sporge dalla ringhiera che contorna la sorgente Aretusa. Nell’acqua chiara, una volta tutta dolce ed ora con infiltrazioni salmastre, galleggiano anatre e due cigni. Verdeggiano rigogliosi papiri, dalle foglie come dita divaricate.
Secondo la mitologia greca, Aretusa è una ninfa al seguito di Artemide. Un giorno, durante una battuta di caccia, Aretusa si allontana dal gruppo e si sofferma sulla sponda del fiume Alfeo, Peloponneso meridionale. L’afa la induce a spogliarsi e a farsi il bagno. Quando Aretusa torna a riva trova Alfeo, il dio titolare del corso d’acqua, che in zero secondi si invaghisce di lei.
Da innamorato Alfeo pensa che tutto l’universo sia dalla sua parte, ma Aretusa è impaurita e scappa. Inseguita da Alfeo, la ninfa implora Artemide di non essere raggiunta. Artemide la trasforma immantinente in un flusso acquoso che sprofonda nel sottosuolo/e poi scava il terreno fino alla costa greca/e poi attraversa il mare in profondità/e poi riemerge con fiotto sul fianco dell’isola di Ortigia. Alfeo, disperato, prega Giove di ricongiungerlo ad Aretusa; Zeus, senza consultare ingegneri, appronta un eurotunnel che unisce il Peloponneso a Ortigia. Alfeo, potendo acquisire la forma acquatica di fiume, percorre la galleria sottomarina e arriva a Siracusa.
Aretusa, a questo punto può denunciare Alfeo a un tribunale di dèi magistrati: Alfeo è in effetti uno stalker. Oppure, conquistata dalla sincerità dei sentimenti di Alfeo, può concedersi all’unione. Le acque della ninfa e del corteggiatore Alfeo scaturiscono insieme dalla fonte e forse, anche oggi, sprizzano congiunte.
Paolo entra qualche volta nell’acquario tropicale, lì, a 30 metri dalla fontana Aretusa. Gli piacciono i pesci balestra, sottili, dalla bocca protrusa, coi denti a cuneo: somigliano all’ Ornella Vanoni di era ante-botox.
Spesso Paolo cammina fino a piazza Duomo, dalla forma di bastimento rovesciato su un fianco. Il lato est è curvilineo mentre a ovest la cattedrale rimanda a un grosso fumaiolo sdraiato. Paolo non riesce mai a distinguere nitidamente la chiesa, intitolata alla Natività di Maria Santissima: la luce le si butta contro superando la propria proverbiale velocità e trasforma l’edificio in un malloppo abbacinante.
Più differenziati alle pupille sono: 1) il Palazzo Arcivescovile, a dx del Duomo, con i limoneti che si affacciano dai giardini claustrali; 2) il Palazzo del Senato, a sn del Duomo, ultimato da Giovanni Vermexio nel 1633 e da lui firmato con una lucertola in pietra che pare guizzare tra gli stipiti del cornicione; 3) il settecentesco Palazzo Borgia del Casale, dall’altro lato del Duomo, affrescato nei soffitti e nelle pareti; 4) il Palazzo Beneventano del Bosco, all’imbocco nord della piazza, mezzo medievale e mezzo barocco; nel 1798 nelle sue sale danza, già cecato da un occhio, l’ammiraglio Horatio Nelson; 5) la chiesa di Santa Lucia alla Badia a chiudere la piazza a sud, come una quinta.
Un giorno Paolo si siede nel bar incluso nell’angolo del Palazzo Beneventano. Parquet, boiserie sui muri, tavolini in noce. Bancone in marmo rosa. Lampadari di cristallo fortunatamente spenti.
Si direbbe un luogo elitario ma sparsi sul pavimento soffiano quattro brutti ventilatori con basi grigie. Un juke-box schizza luci verdi e gialle. Sopra una vetrinetta un piccolo ventilatore è dedicato al vaso in vetro contenente i torroncini Condorelli.
I clienti non hanno nulla di nobiliare. Due ragazze con code di cavallo e un ragazzo dai capelli scalati a torta nuziale giocano a un tavolo con carte da ramino: sono coetanei di Paolo.
Un altro tavolo ospita quattro vecchi, ben coperti da giacche alla faccia della canicola. Pelli in tinta coi legni del locale. Uno ha così tante rughe che la coppola gliela si potrebbe avvitare. Un altro è tanto grasso che nel presepe vivente gli fanno fare la Palestina. Un terzo ha baffi tinti di nero tenebra, di sicuro ereditati dalla nonna e profumati con una colonia che si avverte a 15 metri di distanza. L’ultimo tossisce cospirazioni di batteri.
I quattro prendono la parola a turno, ogni tre minuti. Ciascuno afferma qualcosa di verissimo come Dio. Tono saccente, lievemente sdegnato. Mano artritica che disegna cerchi nell’aria, come a cancellare una lavagna invisibile.
Il secondo vecchio dice qualcosa sul ponte di Messina: cu lu punti scinne ‘na valanga ri ‘gnuranti.
Nel Gattopardo il principe Fabrizio Salina prova a svelare la Sicilia al funzionario piemontese Chevalley: “Alcuni siciliani trasportati fuori dall’isola possono riuscire a smagarsi. Bisogna però farli partire molto, molto presto; a vent’anni è già tardi: la crosta è fatta e rimarranno convinti che il loro è un paese scelleratamente calunniato, che la normalità civilizzata è qui, che la stramberia è fuori”.
La barista, ecco la barista è un incanto. Alta. Capelli riccioluti che cadono tutti a dx grazie a un fermaglio d’oro fissato a sn della fronte. Occhi neri che ti arrivano al respiro, senza passare dal cervello.
Guance scarne sotto zigomi timidamente sporgenti. Le labbra possono recitare Quasimodo o essere la fionda dei sensi.
Leggere occhiaie: lei legge di notte? / lei ha il ferro basso? / lei dorme senza cuscino? Ma basterebbe un correttore nella nuance albicocca.
Chemisier nero con colletto chiuso alla gola e cintura bianca.
Si direbbe avere vent’anni. Frequenta di certo l’università e, ci si può scommettere, sta facendo un lavoro estivo.
Paolo ordina una granita di gelsi. Tira fuori dalla tasca posteriore delle brache un libriccino blu. Con l’occhio dx scorre una pagina de Il pellegrinaggio in Oriente di Hesse. Con l’occhio sn talìa in diagonale la barista.
In una pausa tra le dichiarazioni bibliche dei vecchi, una delle ragazze con la coda va al juke-box e avvia: -Il carretto passava e quell’uomo gridava Gelati! – E subito: -Al ventuno del mese i nostri soldi erano già finiti- (Quindi: niente gelato)
Al termine dell’esecuzione di Battisti, il vecchio grasso postilla: -Carusi, la minchia scassaste-, col complemento oggetto, la minchia, rigorosamente prima del predicato verbale.
In quell’estate del 1973, ogni volta che Paolo è a Siracusa entra nel bar e varia l’ordinazione: granita al limone, pasta di mandorle, cono al pistacchio. Muta anche il libriccino da adocchiare: 101 Storie Zen (copertina melone), Le città invisibili di Calvino (copertina grigia), Alpha-Aleph di Frederick Pohl (copertina rosa antico con striscia gialla tipica dell’editrice Urania). La ragazza con la coda diversifica i dischi: Un albero di 30 piani, Piazza grande, Ziggy Stardust. Il vecchio ribadisce puntualmente lo scassamento del membro.
La barista si chiama Lucia: così le si rivolgono i vecchi per farsi portare un caffè o un amaro. A Siracusa Lucia è un nome originale come un bikini bianco indosso a Ursula Andress.
Un pomeriggio, mentre Paolo è divaricato nello strabismo libretto-barista, Lucia gli si avvicina e gli chiede:
-Ti chiami? –
-Paolo-
-Adesso balliamo- decide Lucia.
Paolo fa un cenno con la testa che non significa né sì né no.
-Se non sai ballare, mi metti le mani sui fianchi. Io ti metto le mani intorno al collo- istruisce la barista.
I due ragazzi si avvicinano al juke-box. Lucia infila una moneta che viene mangiata dal classico tlac.
Parte un giro di pianoforte che veleggia sul sangue del cuore. Poi, la voce sincera di John Lennon. Imagine there’s no heaven/It’s easy if you try/No hell below us/Above us, only sky…
Ballo leeento. Sopra noi, solo cielo. Acqua di Aretusa che balla con l’acqua di Alfeo. E chi non balla non sa che cosa succede. E chi balla prende la scorciatoia per la lacrima della felicità…
…And the world will live as one.
E fine del ballo.
-Dovresti ricordarti di me- dice Lucia.
Paolo torna verso i genitori e le zie.
Il tramonto sta arrivando su tappeto di papaveri. Gabbiani volano su trapezi immaginari. La fonte gorgoglia briosa.
E chi ti scorda, Lucia…
Carlo Maria Milazzo