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La vita in silenzio di Artur Spanjolli

N. 88- Aprile 2024

 

 

 

La vita in silenzio di Artur Spanjolli

Alcuni giorni fa mi sono trovata di fronte all’annuncio dell’uscita della nuova edizione del romanzo “Cronaca di una vita in silenzio” dello scrittore Artur Spanjolli (editore BesaMuci). Questa notizia mi ha spostata un po’ nel tempo, nel 2004, quando partecipai ad un evento di cultura a Firenze. Era in occasione dell’Otto Marzo: una conferenza, una mostra di pittura e la promozione di questo romanzo. All’epoca scrissi un articolo sull’evento, senza soffermarmi a dedicare commenti al romanzo; quindi, questa notizia dell’uscita della seconda edizione, me la sono sentita come un’occasione per colmare un debito con lo scrittore e con questo romanzo.
“Cronaca di una vita in silenzio” è un titolo abbastanza indicativo; si intuisce che si va incontro alla lettura di una storia di dolore, di una vita da scoprire attraverso la lettura, il cui peso dipenderà dallo stile dell’autore.


Per prima mi ha colpita la struttura del romanzo: undici capitoli definiti dai nomi di nove personaggi. Ogni capitolo è un monologo del personaggio, tranne quello del più giovane (dietro il quale si cela l’autore) il quale si è conservato il lusso di tre capitoli: il primo, quello centrale e l’ultimo. Tutti i monologhi insieme, come i pezzi di un puzzle compongono il grande mosaico narrativo.
Come cerchi concentrici tutti questi personaggi si misurano di fronte ad un evento unificatore: il lutto. Nulla può unire di più una famiglia che un evento tragico come la morte. Il lutto, come uno specchio, mette ciascuno di fronte a se stesso e agli altri.
E’ la poetica della scrittura che non sprofonda il lettore in questa sofferenza. Al contrario, il pensiero e l’immaginazione fanno un viaggio fluttuante sulle ali delle metafore a non finire, mai identiche, mai noiose, con un ritmo e un colorito inesauribile che stimola la forza immaginativa a raffigurare i personaggi, gli ambienti, le case, le vie, le strade, ben delineate come i ritratti prima di essere riempiti di colore. Noto qualcosa di speciale in questo stile.
Il romanzo si legge di un fiato e dopo nascono riflessioni e domande. Alcune le ho rivolte direttamente allo scrittore Artur Spanjolli.

La storia è ambientata nell’Albania del dopo dittatura, ma si impara ad ogni capitolo della storia di ieri e di oggi.

 
– Perché la scelta di scrivere un romanzo su una storia albanese?

Credo che, ovunque migriamo, all’estero o no, portiamo dentro di noi mondi, ricordi, pensieri, sentimenti, volti, immagini, sistemi di giudizio, storie. Questi mondi, non ci abbandonano mai, specialmente se si va geograficamente molto lontani. Quindi, più lontani dalla terra d’origine andiamo, e più abbiamo bisogno, non di aggrapparci al passato, ma di apprezzarlo e tenerlo stretto dentro di noi. Questo, non è solo un gesto di nostalgia, ma prima di tutto un sostegno anche morale e che ci aiuta a comprendere meglio chi siamo, dove ci troviamo e perché siamo lì. Per di più, il nostro passato sarà anche fondamentale per costruire il futuro.

Il mio libro, è stato un gesto di appartenenza, un ricordare sempre, e tenere stretta l’identità che rischia di smarrirsi nel Grande Mondo, che ci ha assorbiti per varie ragioni sia economiche sia di crescita individuale. Personalmente ho cercato di tenere stretto il passato, arricchendolo di nuovi concetti occidentali.  Il libro dunque, scritto fuori dal contesto storico in cui si sviluppa e si svolge, in uno spazio–tempo diverso, ha assunto anche una valenza culturale diversa. L’ho scritto anche per mostrare ad un diverso lettore chi sono, da dove vengo e che cosa rappresento. Diversamente da altri “extracomunitari” che hanno scritto la loro storia personale di migrante, io ho preferito di scrivere la storia della mia famiglia. Una saga famigliare estesa, che inizia intorno al 1930 e si conclude nel 1991, con l’avvento della democrazia.

– E’ lo stato di “straniero” che ti porta a raccontarti in un romanzo?

Forse sì. Dopo quasi trent’anni a Firenze, questo stato di “straniero” non lo percepisco più. Ma all’epoca in cui scrissi la storia, sì. Sentivo di essere il “diverso” dal resto dei cittadini di Firenze. Il libro però, non aveva niente a che vedere con la mia frustrazione dell’extracomunitario accettato con freddezza. Ma solo nell’ambito universitario, perché per il resto ho trovato fiorentini che mi hanno sempre voluto bene. Ho sentito invece una solitudine tremenda, specialmente nel periodo in cui scrissi il libro. Era ottobre–novembre 1993 ed ero tornato dopo un lungo soggiorno nella mia città natale.
In Facoltà pensavo che avrei trovato un ambiente accogliente ed un collettivo aperto, invece, gli studenti socializzavano in gruppi chiusi. I corsi erano a scelta, individuali, quindi conoscevo sempre studenti diversi. All’inizio ci rimanevo molto male per quella solitudine intima, estesa anche nell’ambito universitario. Ma poi, ho compreso che quel comportamento era una condizione naturale del loro modo di essere. Il fiorentino tende ad essere chiuso e diffidente prima di conoscerti ed accettarti come amico.
La spinta embrionale per la scrittura del libro è stata quella di dire la mia come scrittore. Sempre, con la magnifica speranza che il romanzo avesse avuto fortuna editoriale.

– Un romanzo autobiografico è come un passaggio obbligatorio per un giovane scrittore?

Non so quale processo creativo succede nella testa degli altri scrittori, ma posso raccontare la mia esperienza personale o di tanti scrittori, classici e no, per i quali scrivere storie autobiografiche è stato un passaggio obbligatorio. Le cose personali sono l’humus principale, forse il più prezioso per forgiare un giovane scrittore. Tanti scrittori nel passato lo hanno fatto. Lo ha fatto Thomas Mann con “Tonio Kroeger” e “I Buddenbrook”. L’ha fatto Papini con “Un uomo finito”, l’ha fatto Kadarè con “La città di Pietra” e “Il crepuscolo degli dei della steppa”, lo ha fatto Primo Levi descrivendo la sua esperienza nei campi di concentramento, l’hanno fatto in tanti… Penso che scrivere un romanzo autobiografico aiuti anche a fare un’analisi dettagliata ed approfondita su quello che siamo, da dove veniamo e dove andiamo. E’ come se uno scrittore si fermasse, girasse la testa e osservasse la strada già fatta, riflettendo sugli sbagli ed errori commessi. Forse allo scopo di camminare meglio, più saggiamente, per il resto del suo cammino. Ma non credo che sia un passaggio obbligatorio. Tanti scrittori sono diventati autori classici senza attraversare questa tapa. Hemingway e Fitzgerald, Faulkner e Marquez, no. Invece Dante e Goethe sì. Dipende allora dal percorso personale e dalla formazione individuale che un narratore ha avuto. Io ho sentito l’esigenza di scriverlo. Ma la “Cronaca” non è solamente un romanzo autobiografico; è prima di tutto una saga di famiglia in cui un personaggio, Arti, a cui ho affidato 3 capitoli, all’inizio, a metà storia ed alla fine, parla della sua esperienza personale, all’interno del tessuto narrativo.

– Il romanzo sviluppa la sua trama a cerchi concentrici. I monologhi silenziosi partono con riflessioni sul personale, sul familiare, sul paese, sulla nazione ed infine sul mondo intero. Come sei arrivato a questa struttura narrativa?

A questa complessa struttura narrativa sono arrivato dopo varie letture che a 22 anni mi avevano influenzato. Leggevo Faulkner e Marquez a quell’epoca. Mi interessava quel tipo di scrittura. Una scrittura a molti piani, con giri di personaggi a rotazione e specialmente una narrazione che riusciva a giocare con il tempo. Il gioco con il tempo lo avevo notato in “L’urlo e il furore” di Faulkner, nelle “Foglie morte” di Marquez, in Virginia Woolf e in tanti altri.

Il romanzo di Marquez mi aveva colpito molto, perciò sono stato influenzato dal coro monologante dei suoi personaggi, i quali ricostruiscono la storia stando in silenzio. Tutto accade, mentre seppelliscono il medico solitario e odiato dalla comunità di Macondo. Anche la struttura del mio romanzo ha questa molteplicità di piani, di registri narrativi e di punti di vista, che hanno dato ricchezza e varietà alla storia.
Nei 15 minuti di silenzio totale in casa, in cui si svolge la storia, a volte si trova lo stesso episodio, raccontato in flash back, ripreso e raccontato da diversi personaggio. Questo mi ha permesso di raccontare l’episodio da diverse angolature e punti di vista, specialmente quelli che hanno a che vedere con la morte del componente innominato. Queste voci monologanti, anziani, uomini, donne, adolescenti e padrini, tutti insieme paiono come dei proiettori, che gettano raggi di luce nel buio delle memorie, ricomponendo così la storia della famiglia estesa. Le riflessioni sono d’obbligo.
Un libro buono ci deve per forza far riflettere. Infatti. I capolavori della narrativa sono celebri per farci sempre riflettere. Se si legge Dante, Shakespeare o Goethe, il libro si tiene più chiuso per riflettere sulla profondità delle cose espresse, che aperto. In questo caso si legge per arricchirsi interiormente. Invece, secondo me, oggi, la maggior parte dei libri di successo sono puramente scrittura d’intrattenimento. Ma questo dipende da che cosa cerca e vuole un lettore. Se lui cerca di arricchirsi, o semplicemente vede il libro come passatempo e divertimento momentaneo.

– Con te abbiamo perso uno scultore ma abbiamo guadagnato uno scrittore. Quanto il tuo essere scultore ha definito il tuo stile narrativo?

 A 19 anni amavo lavorare la creta e scolpire il marmo. Poi è successo qualcosa. Mi sono innamorato profondamente, come si può fare solo in quell’età, quindi ho cambiato direzione. Mi sono messo a scrivere poesie e racconti. Ma la ragione più profonda sul mio radicale cambio di rotta era un’altra. Vedevo talmente difficile l’ammissione al Accademia di Belle Arti a Tirana, (erano in più di mille i concorrenti annuali e vincevano al massimo 30), che ho pensato: non ce la farò mai. Non avendo a Tirana né appoggi e neppure conoscenze tra i componenti della commissione, ho mollato. Perciò ho deciso di pubblicare poesie per ottenere una borsa di studio per la Facoltà di Lingue e Lettere e finalmente sono riuscito ad ottenere una borsa di studio all’università “Luigj Gurakuqi” di Scuttari. Era l’inverno del 1991-2.

Non ero contento. Quindi, prima sono riuscito ad ottenere il trasferimento a Tirana, poi, per un colpo di fortuna (cercata con ostinazione), e mi sono trovato a studiare a Firenze nella Facoltà di Lettere e Filosofia. Poi, piano piano, mentre seguivo l’università ho ripreso la mia attività di artista figurativo. Dipingevo quadri ad olio ed acquerello ed è questo che faccio tuttora come lavoro. Sono tanti i casi di scrittori/pittori. Buzzati, Dürrenmatt, Ernesto Saba, ecc. Come anche ci sono stati casi nella storia dell’arte, di pittori famosi che si sono esercitati anche nella scrittura, come De Chirico.

Le due forme diverse d’espressione, si aiutano a viceversa. Basta pensare al dettaglio artistico. Quello rimane immutabile, è diverso solo il mezzo d’espressione. Un naso aquilino grosso o due occhi acuti da falco, possono esprimersi sia con lo sguardo scolpito da Michelangelo nel David, ma altrettanto, si possono descrivere anche in letteratura grazie alle parole. In questo senso, le due forme dell’arte, nel mio caso specifico, hanno dato una mano l’una all’altra.   

– In “Cronaca di una vita in silenzio” si parla di morte, di ricordo e di oblio. Perché questa scelta? Per sensazione o per libera confessione?

La vita, secondo me è fatta di momenti. In cui ci sono anche momenti cruciali. Come se si prendesse un treno a lunga percorrenza, in cui le stazioni delle città principali fossero i nuclei più significativi della vita. Così: la nascita, il primo amore, un dramma forte, una promozione, un colpo di fortuna, una malattia tremenda. Il matrimonio. La nascita dei figli, e poi la morte che è anche l’ultima stazione. Ed è il viaggio più misterioso e inquietante dell’uomo. Quando la morte di un parente giovane ti bussa alla porta, allora, l’avvenimento tragico ci induce automaticamente a riflessioni profonde. I personaggi nella mia storia si fermano, tacciono di fronte al mistero di essa, e fanno un’introspezione dentro le loro coscienze, sulla precarietà della vita. Sul suo senso effimero e transitorio. Quindi ricordano, per comprendere meglio quale è la cosa più importante da sottolineare per il resto della loro vita. Dare e ricevere amore tra i componenti della famiglia e non solo. Il personaggio del padrino, invece, fa una lunga riflessione sulla solitudine.
Invece l’oblio è fondamentale. Ma non nel senso di dimenticare il ricordo del caro defunto, ma nel senso che solo l’oblio, cioè il passare del tempo, riuscirà a rimarginare la ferita, cicatrizzare il forte dolore. Loro, i personaggi, hanno fiducia nel Tempo.

– Il silenzio definisce ed unisce i personaggi, la storia e dà nome al romanzo. Ma il silenzio salva sempre?

Qui, il silenzio è l’ingrediente principale che mette l’anima e la mente in condizioni di fare un viaggio dentro la coscienza. Una pratica fondamentale nelle arti e nelle religioni orientali. Buddha, Tao, Shintoismo, Dalai Lama, le meditazioni di tipo induiste, tutte hanno bisogno del silenzio per fare questa retrospezione dentro la coscienza. Ma il silenzio qui, può essere interpretato anche come allusione ai 45 anni di silenzio albanese sotto il tallone del regime. Quindi, il popolo azzittito finalmente vuole prendere coscienza su quello che è successo per interi decenni. Ma nel contesto dei 15 minuti silenti della storia, i personaggi tacciono, perché la presenza futile del defunto è ancora in aria. Solo dopo 40 giorni, per la cultura della mia provenienza, l’anima se ne va. Smette di cercare ancora il suo corpo. Il silenzio spesso è stato di fondamentale importanza. In molti casi ha salvato perfino delle vite umane. I saggi, per esempio tendono a stare in silenzio. Meglio un silenzio saggio che un parlare irragionevole.

– Che cos’è per te la “importanza della semplicità”? Cerchi questo nel tuo stile narrativo?

Secondo me, scrivere in maniera semplice è di fondamentale importanza. Né la volgarità né la retorica vuota possono convincere il lettore. Secondo me, solo scrivendo sinceramente, con figure letterarie sobrie ed afferrabili, si può arrivare al lettore. La filosofia ci dev’essere si, nel tessuto della narrazione stessa, ma con misura e deve venire in modo organico. Gli stessi personaggi anche se semplici, appartenenti allo strato basso della società, con il loro modo di pensare devono racchiudere anche la propria filosofia di vita. Che nel mio libro è una filosofia di stampo patriarcale che crede nella tradizione e nel buon senso, però è anche aperta verso il nuovo e moderno. I valori di famiglia nel libro vengono difesi con tanta forza. Appunto, sono questi valori familiari, di rispetto, di tolleranza, di sincere relazioni che fanno anche la forza del libro. In fondo, quello di cui abbiamo più bisogno è volersi bene e rispettarsi.

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