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La rotta del Po, tra mistero, nostalgia e ricordi

N. 100- Maggio 2025

 

 

 

La rotta del Po, tra mistero, nostalgia e ricordi

Da bambino ascoltavo il racconto dei miei nonni come fosse una favola. Non potevo capire quel dramma. Da adolescente, anche se ripetuto decine di volte, quel racconto mi ipnotizzava ma ancora non mi faceva vivere la disperazione che potevano avere vissuto. Da giovane ragazzo facevo domande, indagavo, per ricostruire la scenografia. La nebbia di novembre, il freddo, la paura di quella piena così minacciosa per le case, per i figli, i vicini, per la salvezza di tutto quello che la gente e i miei nonni avevano costruito, con la fatica vera del lavoro contadino e dei sacrifici di un tempo dimenticato. Ora che da decenni i nonni non ci sono più, mi ritrovo a guardare quei luoghi, quella casa, quei muri che ancora oggi sudano quell’umidità mai eliminata, perché “…sotto c’è tanta sabbia e l’acqua è andata via, ma la terra ne ha bevuta troppa…”, mi diceva mia nonna.

Contadini del Polesine. Uomini e donne della terra. Figli della povertà, poi della guerra, poi del benessere sociale, poi felici pensionati. Sempre vecchi anche da giovani, logorati dalla fatica anche nelle foto seppiate della loro gioventù. Sicuramente più belli da anziani.

Il racconto della piena del Po l’ho sentito e risentito decine di volte. Loro c’erano. C’era mia mamma con i suoi fratelli. C’erano centinaia di persone poi andate via e mai più tornate, se non per un saluto, per rivedere i luoghi della loro nascita. La “rotta”, come la chiamavano, avvenne il 14 di novembre del 1951 in vari punti tra Occhiobello e Vallone. Io sarei nato solo sette anni dopo.

Era buio e si è sentito uno scoppio, poi l’argine si è rotto e l’acqua ha iniziato a uscire fuori violenta che non si poteva sentire il rumore che faceva…”. Più volte ho sentito raccontare che prima della rotta si sentì uno scoppio. “Hanno fatto scoppiare l’argine…Perchè da questa parte c’era meno popolazione. Solo terra e povera gente. Se rompeva nel ferrarese sarebbe stato molto peggio. Le fabbriche, la gente al cinema…”. Probabilmente solo fantasie. Le paure, il terrore e la confusione del tempo hanno alimentato ipotesi mai documentate o dimostrate. Sicuramente non vere. A Vallone Paviole, dove ancora si trova la casa del nonno, l’argine crolla per 100 metri. La gente è già in parte sugli argini con le poche cose raccolte, allertata più dall’istinto di conservazione che dall’organizzazione. Le donne e i bambini piangono. Piangono per il buio e per l freddo, per il terrore, per la disperazione delle loro case e delle cose violentate dalla furia delle acque.

Il grande fiume… Prima era un confine da superare, per trovare l’amore delle ragazze che stavano “di la dal Po”. Qualche centinaio di metri  da attraversare facilmente durante l’estate, periodo di secca. Un lungo e pericoloso viaggio nei bui e nebbiosi giorni invernali, quando la piena era un ostacolo per chi passava con il vecchio traghetto. Uno spettacolo minaccioso e terribile da guardare con paura, per chi viveva le sue piene. Eppure grazie a quel fiume sono nati amori, e sarei nato io.

Oggi lungo la strada arginale il grande fiume si percorre in sicurezza e si può osservare il suo veloce procedere alla foce con meno timore di un tempo. “Qui è largo. Guarda, sembra un lago…”, mi dicevano gli anziani da piccolo. Ora che anch’io ho l’età delle rughe e della ragione, guardo con i loro stessi occhi e con la stessa rispettosa riverenza quella grande massa d’acqua scorrere velocemente. E ogni volta mi sento il cuore sobbalzare. Un’emozione mista di angoscia e pace insieme. I suoi argini, verdi e rigogliosi di vegetazione, le vecchie e decrepite case rimaste ancora in piedi, ricordo di un tempo che non è più, di chi vicino al grande fiume ci abitava davvero, lottando ad ogni stagione con le sue acque e con l’umidità di una nebbia che bagnava come pioggia.

Il Po è anche il ricordo di persone sparire e annegate nelle sue acque, trascinate dai suoi torbidi mulinelli e dalle correnti, o di chi ha disperatamente deciso di morirci annegato, per dare una triste fine alla sua vita. O di chi invece si è salvato, dopo esserci caduto dentro giocando vicino alle piccole barche ormeggiate da pescatori. Lungo il suo argine è morto anche mio papà, stroncato da un infarto così improvviso quanto fulminante nel fiore dei suoi anni. Passeggiava sopra quella riva per viaggiare indietro nel tempo, volgere lo sguardo oltre la riva, al paese delle sue origini e pacare quel senso di nostalgia che prende le genti del Po.

Sulla facciata della casa mio nonno ha posto una targa ricordo. “L’acqua dell’alluvione è arrivata fino a qui…”, mi diceva indicando il segno nero sulla lapide. “La casa era abbandonata. Le botti del vino al piano di sopra, con il poco cibo, le galline e pochi mobili. Non potevo lasciare tutto abbandonato. Ho preso la Vanduja (vasca di legno per la macellazione del maiale), l’ho usata come una barca e sono andato verso la casa. Ma l’acqua è entrata quasi subito e mi sono rovesciato. Camminando nell’acqua fredda di novembre che mi arrivava fino al collo sono arrivato fino alla casa. Sono salito al primo piano, ho messo sul fuoco del camino una pentola di vino e l’ho bevuto tutto. Non mi è venuto nemmeno un raffreddore…”.

Decine di volte ho sentito questo racconto. Ho sempre pensato a come la mente ci aiuti nel tempo a trasformare le brutte esperienze in ricordi su cui riderci sopra. La nostalgia del grande fiume Po è anche questa. Una nostalgia che riporta al passato e che riscalda il cuore con ricordi d’amore.

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