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Il vero volto di Stefano Pelloni, Passatore non tanto cortese

N. 96- Gennaio 2025

 

 

 

Il vero volto di Stefano Pelloni, Passatore non tanto cortese

“Romagna solatiadolce paese, cui regnarono Guidi e Malatesta; cui tenne pure il Passator cortese, re della strada, re della foresta”. Con questi versi, Giovanni Pascoli chiudeva la poesia “Romagna”, la famosa ode alla sua terra. Dal ricordo di tempi scolastici di tanti anni fa (chissà se oggi la lirica pascoliana è ancora così frequente sui banchi di scuola), al piacere della scoperta (per dirla con Alberto Angela) di quel soggetto “cortese” che fu Stefano Pelloni detto “il Passatore”, così dipinto dal Pascoli.

La più fedele immagine di Stefano Pelloni, tracciata dal prof. Silvio Gordini di Russi 
(Museo del Risorgimento, Faenza), ben diversa da quella utilizzata quale logo nel circuito enogastronomico, pur giustificata da esigenze di comunicazione commerciale ma non rispondente alla realtà. Curiosamente, dall’immagine pare che l’arma sul braccio di Pelloni sia un fucile a quattro canne. Ma tale particolare fu di brevissima durata.

Cadeva nell’agosto scorso il bicentenario della nascita di Stefano Pelloni (Boncellino di Bagnacavallo, 4 agosto 1824 – Russi, 23 marzo 1851), il brigante la cui immagine banditesca (in realtà non attinente al soggetto, poiché l’immagine più verosimile è quella a corredo delle note) ha caratterizzato in epoca moderna la serigrafia commerciale di molti dei prodotti vinicoli e di svariati eventi enogastronomici romagnoli.

Ultimo di dieci figli, nato da Girolamo e da Maria Francesca Errani, aveva preso il soprannome dall’attività di traghettatore, “passatore”, fra le due sponde del fiume Lamone, a Boncellino, con la quale il padre integrava i proventi del piccolo podere di proprietà. Sulla vita di Stefano Pelloni, sull’onda di un alone di Robin Hood o di spietato fuorilegge conquistato sul campo, sui relativi differenti punti di vista o risultati delle ricerche, si può dire che sono stati versati fiumi di inchiostro, (le “firme” da Francesco Serantini con il suo “Fatti memorabile della banda del Passatore in terra di Romagna”, ad altre di non pochi Autori e biografi che hanno trattato l’argomento), senza dimenticare la composizione di diverse canzoni (una per tutte la Canzone del Passatore, di Secondo e Raoul Casadei: “Questa è la triste storia di Stefano Pelloni / in tutta la Romagna chiamato il Passatore” …, ma anche il Quartetto Cetra ne incise una sul brigante) e la realizzazione di sceneggiati per la tv (Il Passatoresceneggiato televisivo Rai nel 1977, con l’attore Luigi Diberti nella parte del protagonista) e film (già nel dopoguerra, nel 1947, un film con il famoso attore Rossano Brazzi nelle vesti del protagonista). Insomma, un personaggio nel vero senso della parola, che tuttora gode di notorietà. Quanto alla vita reale, il “nostro”, nei fatti, fu tutt’altro che “cortese”. Però, rileggendo con un po’ di logica, viene da chiedersi il perché della scelta di tale aggettivo da parte del Pascoli. Cortese verso chi? Non certo verso il governo pontificio. Quindi cortese, e generoso, verso la popolazione sul tipo di un Robin Hood, cioè verso coloro che l’aiutavano? Di tale aspetto vengono infatti riportate più notizie, a fianco di quelle di spietatezza verso spie e traditori. Comunque sia, i testi in circolazione parlano di un avvio sulla strada della ribellione già in verdissima età, in parte forse per decisione propria a seguito di disavventure personali con la legge, e in parte traendo spinta dai comportamenti sopra le righe di due dei fratelli maggiori e di uno zio e un cugino della parte materna. Un Autore, Roberto Finzi, riferisce, oltre a svariati altri dettagli su tutta la carriera del brigante, che il giovane Pelloni finì fuorilegge per pura casualità e da lì una condanna al carcere dal quale poi fuggì dandosi alla macchia. Da lì in avanti, a compimento delle imprese, si fece riconoscere con una firma che mutuava dal mestiere di famiglia: “Stuvanèn d’ê Pasadôr”, Stefano figlio del traghettatore.

L’antico traghetto sul fiume Lamone a Boncellino (g.c. Pagani)

Numerose le scorribande dalla pianura all’Appennino con la sua banda di accoliti, servendosi della protezione di vari fiancheggiatori e manutengoli, quali ricompensati per l’aiuto dato, quali per “solidarietà” morale contro le autorità pontificie, e quali sotto minaccia di ritorsioni e uccisione, includendo fra i primi e gli ultimi, per analoghi motivi, presumibilmente anche elementi fra le forze dell’ordine.

Fra tutte le scorribande è rimasta famosa l’occupazione del paese di Forlimpopoli, mentre gran parte della cittadinanza si trovava al teatro. Il 25 gennaio 1851, Stefano Pelloni (sarebbe stato ucciso appena due mesi dopo) e la sua banda irruppero in città penetrando nel teatro comunale mentre si stava tenendo una rappresentazione. Certo qui può anche sorgere un dubbio lecito, nel senso che appare perlomeno singolare che la gendarmeria in servizio quella sera sia stata bellamente gabbata. Chissà, fu proprio così? Oppure anche fra i gendarmi (mal pagati!) qualcuno per interesse non disdegnava il doppio gioco? Comunque, nei fatti, gli spettatori vennero prima rapinati sul posto, poi alcuni condotti nelle proprie abitazioni e in quelle di conoscenti dove i banditi diedero seguito al depredamento. Fra queste anche la casa della famiglia di Pellegrino Artusi, colui (allora ancor giovane e non ancor noto per la gastronomia) che sarebbe poi diventato il padre della cucina italiana (la famiglia in quel momento commerciava tessuti). Una delle sorelle di Artusi, Gertrude, fuggì sul tetto ma rimase sconvolta per la paura, subendo uno shock che influì drasticamente sul resto della sua vita. Per la banda del Passatore, però, il vento era già sul punto di girare. La Gendarmeria Pontificia era da qualche tempo in azione agli ordini del Capitano Michele Zambelli, il quale aveva avviato una caccia serrata contro i malviventi. Zambelli, lavorando su fiancheggiatori e manutengoli, era riuscito a scardinare la protezione sulla quale la banda poteva contare sul territorio. Persone sospette arrestate, infatti, dopo la cattura non lesinarono rivelazioni pur di avere salva la vita. L’epilogo dell’epopea del Passatore avvenne a Russi, sul podere Molesa, a non molti chilometri dal natìo Boncellino. Dopo tanto girovagare per monti e per valli, la fine arrivò, quasi un segno del destino, a due passi da casa. Pelloni e il suo amico di lunga data “Giazzolo” (Giuseppe Tasselli), braccati, cercarono di far perdere le tracce dirigendosi verso un luogo che conoscevano bene, il capanno del roccolo Spadina (impianto della famiglia Spadini di Faenza per la cattura degli uccelli, come altri, al tempo nelle campagne, allestito a scopo commerciale/alimentare; il toponimo è tuttora mantenuto). Siano stati in qualche modo notati (da Vincenzo Guerzola detto Brucione, nel testo di Piero Farolfi) o traditi (un testo riporta il nome di Lodovico Rambelli quale traditore), la Gendarmeria locale si portò velocemente sul posto, fiutando, non ultimo, la possibilità di riscuotere la taglia messa sulla testa dei briganti. Nello scontro a fuoco, Pelloni cadde non senza aver fatto come sua ultima vittima il Brigadiere Achille Battistini (anche altri due gendarmi caddero). Finirono così in un’uccellanda le gesta del Passatore, perpetuate poi dalla storia e dalla leggenda. Alcuni testi riportano che, finito lo scontro a fuoco, sorse un vivace confronto fra i gendarmi per l’attribuzione della taglia, perché Pelloni era stato prima ferito gravemente da un gendarme e poi “solamente” finito dal sussidiario della gendarmeria Apollinare Fantini (Pulinér dla Susȃna). Comunque, ironia della sorte, al Capitano Zambelli mancò la gloria di porre fine personalmente alla lunga sfida. Giazzolo, nonostante fosse ferito ad una gamba, riuscì a fuggire approfittando di un casuale momento favorevole. Venne catturato tempo dopo.

Le gesta del Passatore, durante e dopo la vita, vennero spesso ingigantite dal passaparola popolare. Fra le varie “narrazioni”, vi fu anche quella concernente il suo armamento personale a proposito di un fucile a quattro canne che però non appare su alcun documento. Infatti, nella descrizione del Pelloni in un verbale di Polizia del 1839, si legge: < …. armato di schioppo a due canne, e di pistola simile, non che di lunga coltella >. Il fucile a quattro canne era in sostanza una mezza verità, perché in effetti l’arma esisteva, ma era appartenuta a Pelloni solo per brevissimo tempo. Il fucile a quattro canne a quel tempo era uno degli obiettivi di prestigio degli artigiani archibugiari. Fra i romagnoli ne costruirono uno (donato poi alla casa reale) gli Zanotti di Santa Maria in Fabriago (agro di Lugo), Liverani di Modigliana (ma solo un abbozzo), e un prototipo l’armaiolo Domenico Maria Darchini del Ponte della Chiusa di Bagnacavallo, probabilmente per emulazione degli Zanotti. Pelloni ne venne a conoscenza e decise di impossessarsene. Le cronache riportano che, il 7 ottobre 1850, Domenico Maria Darchini si vide piombare in officina il famigerato Stefano Pelloni, accompagnato dal fido “Giazzolo”, con facce che non lasciavano presupporre nulla di buono. Poco prima, i due avevano malmenato un contadino che passava con il calesse, per sottrarglielo e servirsene poi per la fuga. Il furto avvenne quindi in pieno giorno. L’arma, commissionata al Darchini dal Commissario di Polizia lughese Giuseppe Baldani, in verità si trovava ancora in uno stato incompleto, ma il Pelloni se ne appropriò ugualmente. Darchini sottostette alla minaccia, e in quel modo riuscì a scamparla. L’agognato fucile a quattro canne non ebbe però la gloria attesa. Dato a un altro fabbro-armaiolo fidato (ma meno esperto di Darchini) per essere finito, risultò pesante e poco pratico, sicché Pelloni non lo tenne e lo cedette ad uno dei suoi sgherri. Tant’è che nello scontro finale alla Spadina non è riportata traccia di quell’arma che forse avrebbe cambiata la situazione. Nella foto a corredo delle note, che propone l’immagine più verosimile di Stefano Pelloni (Museo del Risorgimento – Faenza), tracciata dal prof. Silvio Gordini di Russi (senza barba, colorito pallido, ecc.) pare che l’arma in braccio a Pelloni sia un quadricanne, che però come riportano le cronache non venne mai usata dal bandito. Il corpo di Pelloni, dopo essere stato esposto e portato in giro a testimonianza della sua fine, venne sepolto all’esterno della Certosa di Bologna, in terra sconsacrata, in una fossa comune “riservata” ai malviventi di varia fatta. Questa è la triste storia (in sintesi) di Stefano Pelloni, in tutta la Romagna chiamato il Passatore. Ma, anche dopo due secoli, la sua leggenda continua ad avere fascino. In tempi recentissimi, un appassionato cultore di storie romagnole, Adriano Pagani, ha ripercorso la trafila del brigante recuperando particolari inediti. Bisognerà forse riscrivere alcuni passi dell’avventura di Stuvanèn d’ê Pasadôr?

Roberto Aguzzoni

Nell’immagine di apertura: Incisione tratta da “Omaggio a Serantini” (ed. del Girasole Ravenna, Ottobre 1974), che rappresenta fa fine del Passatore ucciso dalla gendarmeria papalina

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