Il riso nella cucina bolognese
L’ Accademia Italiana della Cucina ha dedicato il 2023 alla trattazione del riso (e, a seguire, degli altri cereali) nella cucina della tradizione regionale.
Il volume, edito nella Biblioteca di cultura gastronomica, dedica all’ Emilia-Romagna svariate pagine nelle quali, alle numerose ricette, è abbinato il territorio di provenienza con storie spesso affascinanti; come a Parma dove il risotto, amato da Maria Luigia, è rosso, con funghi secchi, salciccia e fegatini di pollo; oppure a Comacchio, nelle valli ferraresi, dove, per 4 persone, a mezzo chilo di riso si abbinano 750 grammi di anguilla; oppure a Faenza con l’ anitra, o a Forlì con uova in brodo di maiale, o a Imola dove, insieme a varie carni, viene ” alleggerito ” con verza tagliata a listarelle.
A Bologna è dedicata la torta di riso, o degli Addobbi, o degli Addobbini, nata per le tavole nelle Decennali Eucaristiche e in altre ricorrenze religiose, poi riproposta anche a Modena mentre nella Bassa reggiana la torta di riso è detta anche la torta di Madonna Pavola in onore di Paola da Correggio, sposa del Signore di Rolo.
Bologna, la città conosciuta nel mondo come la capitale del buon cibo, invasa in queste settimane da turisti italiani e stranieri a caccia di tortellini, lasagne e tagliatelle, come mai non comprende nei menu tradizionali il riso come primo o come piatto unico?
E’ bastata una piccola ricerca per risolvere l’enigma o meglio per proporre alcune risposte che, da un lato, spiegano l’interruzione di una storia e, dall’ altro, propongono nuove sfide tra i fornelli.
In un raro libretto, edito nel 1984, e intitolato: “Bassa Bolognese: il riso… e le lacrime”, Oriano Tassinari Clò scrive: “Ci si potrebbe chiedere come mai, nella tradizione bolognese, non vi sia segno alcuno del riso. Forse la relativa “giovinezza” della coltura, piuttosto l’identificazione riso= sofferenza, stabilitasi sin dagli inizi e confermata per l’arco di due secoli; con l’aggiunta poi di una certa diffidenza che portava talvolta all’ emanazione di pubblici bandi contro la semina dei risi, considerati veicoli quanto meno di … ammorbamento. La risaia è stata considerata un male necessario ma pur sempre un male, fin quando la meccanizzazione ha tolto i braccianti e le mondine dalle lunghissime giornate con l’acqua stagnante fino alle caviglie. E’ pur vero che il lavoro in risaia è anche servito, pur a costo di immani sacrifici, a tante donne a trovare una propria indipendenza non tanto dallo sfruttamento dei “padroni”, piuttosto dai costumi repressivi della vita di campagna, come mostra la foto delle mondine di Castenaso in trasferta nel Novarese nel 1950.
Tornando al riso nella cucina bolognese, come aveva diffusione nelle famiglie così, al contrario, andò progressivamente perdendosi nella ristorazione. Con importanti eccezioni.
Mi sarebbe piaciuto partecipare al pranzo di gala offerto dal Comune di Bologna il 30 ottobre 1930 a S.M. Vittorio Emanuele III. Il piatto forte era il ” Risotto alla Bolognese con tartufi “. La congiunzione farebbe pensare all’aggiunta del prezioso fungo direttamente sul piatto appena servito ai commensali, ma è solo un’ipotesi.
Ma allora, com’era il “Risotto alla Bolognese”? Ci aiuta a scoprirlo un piccolo, raro libretto con i crismi dell’ufficialità, perché edito dall’ Ufficio propaganda dell’Ente Nazionale Risi nel 1951 e si intitola “Il riso nella cucina italiana”. Tra le poche ricette tipiche selezionate c’è appunto il “Riso asciutto alla Bolognese”. Ingredienti: carne di manzo o mista, conserva di pomodoro, burro, lardo, cipolla, sedano e carota, odore di noce moscata, formaggio. Il condimento viene preparato a parte, il formaggio pronto grattugiato, il riso portato a cottura. Il tutto versato a cadenza nei piatti perché poi “ciascun commensale penserà a rimestare per proprio conto”. Buon appetito.
Roberto Zalambani