Il rinascimento dell’agroalimentare italiano
L’export italiano è salvo grazie all’agroalimentare. È questa la sintesi di articoli comparsi nelle pagine economiche dei giornali nel mese di ottobre 2024, che testimoniavano un’annata positiva delle esportazioni agricole e alimentari tricolori, che nel 2024 si avviano a battere il record di 64 miliardi di euro esportati nel 2023.
Nel 2023 il deficit totale agroalimentare è stato di 889 milioni di euro (65.065 milioni di import, 64.176 di export); l’export totale, in sintesi, rappresenta il 98,6% dell’import, con la bilancia agroindustriale in attivo (43.267 milioni di euro di import, 55.344 milioni di export) e quella agricola ancora in deficit (21.798 di import, 8.832 di export), perché non riusciamo a produrre tutti i prodotti freschi per rifornire una industria di trasformazione in crescita. È un fatto decisamente positivo se calcoliamo che il deficit agroalimentare totale era partito, alla fine del passato millennio, da una vera voragine.
Se torniamo agli anni Ottanta del secolo scorso, la situazione appariva quasi disastrosa. L’agroalimentare era la seconda voce passiva nella bilancia commerciale dopo quella energetica. Il deficit agroalimentare era di 8.362 miliardi di lire (17.386 import, 9.024 export) e l’export rappresentava solo il 51,9% delle importazioni agroalimentari totali. L’agricoltura era spesso sotto accusa per produzioni non sempre di qualità che sovente prendevano la strada del macero (la famigerata Aima, l’azienda per gli interventi sul mercato agricolo che, sotto l’ombrello del Governo italiano e della Comunità europea, ritirava e distruggeva prodotti per non far crollare i prezzi).
L’agricoltura in primis e l’agroindustria (un po’ meno) venivano considerate più o meno settori residuali. Il Paese aveva vissuto il boom economico grazie soprattutto all’industria manifatturiera e il settore primario era considerato roba d’antiquariato. Perfino le pubblicità non prendevano in considerazione il prodotto nazionale. Un famoso pastificio sbandierava i velieri che importavano il buon grano dell’Ucraina per produrre la pasta, piatto preferito degli italiani, mentre qualche scatolificio di carne vantava manzi allevati oltre Atlantico.
Come se non bastasse, nel 1986 scoppiò lo scandalo del vino al metanolo, probabilmente il punto più basso toccato dalla vitivinicoltura italiana. Ma proprio da lì l’agricoltura e l’agroalimentare sono ripartiti per un vero rinascimento, una crescita, soprattutto qualitativa, che ai giorni nostri ha portato il vino ad essere la prima voce nell’export agroalimentare e vessillo della qualità tricolore nel mondo.
Cos’è successo in mezzo? I fattori di rinascita sono stati tanti e non tutti facilmente individuabili. Importante sicuramente è stata l’evoluzione delle aziende agricole italiane. Dalla piccola azienda che praticava una agricoltura poco più che di sussistenza, si è passati ad aziende più strutturate che hanno cominciato a confrontarsi con il mercato, direttamente o tramite cooperative, associazioni o strutture commerciali ben organizzate. Contemporaneamente è cambiata la percezione dell’agricoltura. Ci si è resi conto che per tutta una serie di fattori legati al suolo, al clima e alle conoscenze degli agricoltori, i prodotti italiani avevano caratteristiche uniche. Un esempio per tutti: il Parmigiano Reggiano, che si può fare solo nel territorio a sinistra del Po e a destra del Reno. Ma anche, oltre al vino, certe varietà di pomodoro, di olive, di cereali.
A dare una mano, ci si è messa anche la Dieta Mediterranea, che ha interessato prima schiere di scienziati e dietologi e poi affascinato i consumatori di tutto il mondo, fino a diventare nel 2010 patrimonio immateriale dell’Unesco. Nel frattempo, è cresciuto il potere d’acquisto di molti Paesi, sia dell’area mediterranea, sia del sud est asiatico, mentre l’abbattimento di barriere doganali ha favorito l’export.
Tra i tanti elementi che hanno spinto la ripresa del made in Italy agroalimentare, c’è stato anche un certo orgoglio dei produttori di riuscire a produrre alimenti di qualità che ingolosiscono i consumatori in ogni angolo del pianeta. Il tutto condito con la considerazione che l’agricoltura è comunque un baluardo dell’economia italiana, perché non può essere delocalizzata, come avviene per larga parte di prodotti industriali (vedi automobili).
Ed è così che oggi l’agroalimentare costituisce il 10 per cento delle esportazioni, mentre negli anni Ottanta faceva fatica ad arrivare al 5 per cento.
Giuseppe Di Paolo