Il mio Buddha di Sarnath
Desiderate fare un tagliando al karma? Avete i chakra sbloccati? Avete messo il collirio nel Terzo Occhio? Siete muniti di cerulisina per l’eventuale Terzo Orecchio? Siete normotesi? Il respiro è regolare?
Sì?
Siete pronti per l’India.
Per quanto mi riguarda, intorno ai trent’anni “avrei bisogno di un centro di gravità permanente, che non mi faccia mai cambiare idea…”. Cerco la Verità cosmica, conclusiva, totale, unidimensionata, che imponga il divieto di sosta agli avverbi. Giuro che, se la trovo, la tengo da conto e non ci faccio giocare i bambini.
L’India è una fabbrica di asceti alle soglie dell’illuminazione/è una fucina di Maestri del trascendente/ è il grande magazzino dei simboli, perfettamente interpretati/è la casa madre dell’Assoluto.
Nell’autunno 1987 vado in India per reperire una definizione esaustiva della Verità.
Mi incontro con l’amico Ganesh, conosciuto a Bologna ai tempi universitari. Lui è alto un metro e sei spanne/magro come un fantino a dieta/pelle avana/baffetti stentati.
Hindū, seconda casta, settore terziario (guida turistica), cintura nera di meditazione.
Un giorno di fine settembre, a Varanasi, zibaldone assai rimescolato, andiamo alla stazione ferroviaria. Facciamo slalom tra mucche accidiose e risciò traballanti. Saltiamo i corpi distesi di derelitti e cani appisolati.
Prendiamo un treno azzurrognolo, gremito, che punta a nord.
Scendiamo dopo 15 km a Sarnath, meta di pellegrinaggio in quanto luogo dove Buddha, 527 anni a.C., tiene il suo primo discorso. Il cielo è striato da siepi di cirri che il sole salta come un cavallo a un gran premio. Percorriamo un sentiero di 1 km e mezzo, osservato da palme briose, oleandri inselvatichiti e scimmie dalle code a girelle di liquirizie.
Sarnath è l’abbreviazione di Saranganatha, cioè “signore dei cervi”. Il nome fa riferimento alla leggenda per cui Buddha, in una vita precedente, è un cervo capobranco che si offre al re di Kashi al posto di una cerva incinta catturata. Il re apprezza il nobile gesto, libera i cervidi e vieta la caccia di quegli animali. (Voi, chi siete stati in un’altra vita? Un ornitorinco, vista la vostra quadrupla personalità? Un panda, viste le vostre occhiaie alla zuava? Un bradipo, visto che avete la vitalità di Lenin nella teca di vetro?)
Il villaggio è piccolo, una trentina di case senza soluzione di continuità, ocra e nocciola. Il sito di interesse è una grande radura circondata da manghi verdoni. Vi rosseggiano rovine di mura e terrazze in mattoni, del 1500. Poi ci sono resti di monasteri di varie epoche: il maggiore conta 104 celle che misurano 2,5 metri per lato.
Il monumento principale è il Dhamekh Stupa, torre arancione cilindrica, di 35 metri, che si alza da un piedistallo più largo. Il basamento e la cupola a vaso rovesciato la rassomigliano a un rossetto svitato fuori dall’astuccio. La base è ornata da fiori scolpiti. Come molti degli Stupa antichi anche il Dhamekh dovrebbe ergersi sopra reliquie. La costruzione risale al 300 d.C., durante il regno Gupta.
A est dello Stupa, sorge il Mulaghandakuti Vihara, tempio buddista edificato nel 1931. Ha delle torrette con guglie che lo fanno sembrare una chiesa cattolica. Un monaco in tunica color bruciato ci fa segno di entrare. Il foyer d’ingresso ospita una campana bronzea, dono di un’associazione buddista nipponica. Le pareti delle stanze sono affrescate dal pittore giapponese Kosetsu Nosi.
Sotto il porticato che cinge il cortile centrale sono disposte due file di banchi. Studenti con camicioni rossi stanno scrivendo. Ganesh ed io camminiamo in punta di piedi per non distrarli. Ci andiamo a sedere sul prato cortilizio.
Dopo alcuni minuti gli studenti vengono a sedersi pure loro, in mezzo a un chiacchiericcio vivace. Due monaci rasati portano una poltrona in mezzo all’erba. Un monaco sicuramente Maestro, in tunica rosso fiammante, caracolla fino al comodo sedile. È grasso quanto un discobolo steroidato della Germania Est dopo un’indigestione. Carnagione pompelmo metallizzato. Cranio lucido come deterso con l’Argentil. Il Maestro ciccio si sprofonda nella poltrona.
Il cicaleccio dei ragazzi termina di colpo. Il Maestro racconta la seguente storia, che mi viene simultaneamente tradotta da Ganesh.
^^^La Notte è un gigante nero che acquattandosi, poi strisciando sul terreno all’improvviso si alza, spicca un salto e si butta addosso al Dì, gigante bianco. Colpisce il Dì con un pugno sulla testa e lo trascina lontano, svenuto.
Passate undici-dodici ore il Dì riprende conoscenza e va in cerca del gigante nero che gli ha usurpato il posto. Non è difficile trovarlo perché le tenebre intorno null’altro sono che pelle, corpo, ciccia della Notte. Però occorre trovare un appiglio, un braccio o un piede, per afferrare il gigante scuro, farlo cadere e scansarlo.
Il Dì si accorge che la Notte ha un’unghia lucente, l’unghia di luna: una curvetta pallida pare proprio la sommità di un dito. Al nero che le sta vicino il gigante decide di far presa e infatti, a un susseguente strattone, la Notte capitombola. Con un calcio poderoso viene poi allontanata.
Dopo altre undici-dodici ore la Notte torna all’attacco. Si rannicchia nei pressi del Dì e, appena il gigante bianco si distrae, gli balza sopra e lo stordisce. Poi lo rimuove.
Quando il Dì si risveglia non è preoccupato: sa che c’è l’unghia di luna e che si può avvinghiare a un polso contiguo per tirar via il nemico. Così procede.
Per qualche tempo lo scontro e l’avvicendamento dei giganti si ripetono ogni undici-dodici ore. Il Dì, sempre costretto a un sonno forzato, si risveglia di ottimo umore. L’unghia di luna si ingrossa, probabilmente per un’infiammazione derivante dai maltrattamenti subiti: è semplice rintracciarla e stringerla. A un certo punto, è vero, l’unghia diminuisce con un lento sgonfiamento, però il Dì mantiene la convinzione dell’impossibile eclissi.
Invece, dopo essersi molto ridotta, l’unghia sparisce. Il gigante bianco la cerca spasmodicamente, ma, non scovandola e non avendo agganci alla Notte, si sente sconfitto, annientato, renitente a qualsiasi antidepressivo. Il Dì stabilisce di morire e si lancia in corsa sul luogo dove ricorda esserci una montagna, al momento annerita dalla Notte. Sbatte la testa contro la roccia e crolla inanimato.
La Notte degusta un mieloso sapore di trionfo. Presto, tuttavia, un nuovo sentimento si dilata nel cuore del gigante scuro. Qualcosa di viscerale, in fondo classificabile come affetto, lega la Notte al rivale e il saperlo azzerato, inattivo, forse morto lo getta nello sconforto.
Dopo ore nerissime, la Notte risfodera la fulgida unghia di luna. Allora si reca là dove il Dì giace. Gli dice con voce commossa:
-Ecco, ho di nuovo messo in mostra l’unghia che potrai stringere quando vorrai. Dai, tirati su-
Ma il Dì non dà segni di vita. La Notte si butta allora sul gigante supino e con l’unghia di luna gli incide il volto e il corpo. Urla:
-Devi svegliarti! –
Ad un tratto il Dì avverte il dolore di una ferita aperta dall’unghia. Apre gli occhi e manda un flebile “ahi”.
La Notte tende allora la mano che termina con la lucente propaggine e aiuta il gigante bianco a mettersi diritto. Il Dì si leva tutto grondante di sangue e viene spinto al vecchio posto.
Da quel momento l’alternanza di Notte e Dì avviene ogni undici-dodici ore in perfetta amicizia. Soltanto le albe, sempre da quel momento, prendono il colore del sangue del Dì. ^^^
Devo dire che questa favoletta manda in vacca la mia ricerca di Verità univoca. Penso subito che l’Assoluto è solo, che l’essere ha bisogno di un concomitante non essere, che una conclusione è mortale. Penso a Seneca: “senza un avversario la virtù marcisce”. Penso che la luna ha un lato oscuro ma fortunatamente la luna si vede. Addirittura penso che avere una idea definitiva sia molto pericoloso. E che dal trascendente al trash-endente passa solo il tempo di cambiare una consonante.
Tuttora la penso così.
Carlo Maria Milazzo