Il Carnevale nel mondo: origini remote e comuni

Da pochi giorni abbiamo archiviato il Carnevale 2025, anche se in alcuni centri (ad esempio a Cento di Ferrara) ancora proseguono le manifestazioni con i carri mascherati. Il carnevale è una festa che trae le sue origini da molto lontano. Dalla preistoria. Con la forza del suo simbolismo è arrivata fino ai giorni nostri partendo da un’Europa ancestrale. Un’Europa coperta da immensi boschi e foreste e all’epoca interrotte da pochi e piccoli villaggi abitati in qua e là. Dove gli esseri umani erano in balia della natura, dirompente e sconosciuta. Un’epoca che non aveva ancora visto arrivare la civiltà greca e romana. Ma dove gli uomini e le donne già si animavano nella stagione fredda con le maschere. Utilizzavano le pelli degli animali uccisi per travestirsi da cervo, capra, orso e altro. Ma anche rappresentando figure pagane richiamanti la stregoneria. Era un modo per esorcizzare la sconosciuta natura e per entrare in contatto con gli “spiriti” de boschi, con cui si era in perenne lotta, così come con gli “spiriti” degli antenati defunti. Un rito propiziatorio per un veloce arrivo del risveglio primaverile dopo un lungo letargo invernale. Le maschere erano già allora libere di circolare e di fare scherzi. E secondo molti studiosi è in questi travestimenti arcaici di un mondo rurale e primitivo che affondano le radici del carnevale. A cui si aggiunsero altri elementi caratteristici più avanti nel tempo, verso il V secolo a.C., e con altre feste, come le Saturnali della Roma antica (feste in onore del dio Saturno che si tenevano a Roma alla fine del mese di dicembre) e con le feste dionisiache (celebrazioni dedicate al dio Dionisio) del periodo classico greco.

Durante le festività era consentito lasciarsi andare, senza obblighi e impegni, per dedicarsi allo scherzo e al gioco. Le maschere permettevano di essere irriconoscibili e di parificare il ricco e il povero, eliminando per pochi giorni le differenze sociali. Pochi giorni perché, terminate le feste, il rigore e l’ordine tornavano a primeggiare. Ma in quei pochi giorni non era così: il proverbio associato al carnevale, derivato dall’antico detto latino, era infatti: semel in anno licet insanire (una volta all’anno è lecito impazzire). Un’altra festa antica che ha lasciato traccia nel carnevale è Navigium Isidis (la nave di Iside), un rito di origine egizia che venne celebrato a partire dal 150 d.C. nella Roma imperiale e in particolare nel momento del suo massimo splendore.
Era un rito in maschera molto festoso dove la nave della dea Iside era montata su ruote e il carro navale, il carrus navalis (da cui per alcuni deriva il termine carnevale), era mosso in processione tra la folla di persone mascherate che lanciavano fiori di devozione alla dea stessa. La festa, si teneva nella prima luna piena dopo l’equinozio di primavera.

Ma nel IV secolo d.C., con l’affermarsi del cristianesimo nell’Impero romano, la festa, con il suo patrimonio di trazioni pagane, mal si addiceva con la pratica della Chiesa, verso cui si erano avvicinati gli imperatori dell’antica Roma. I quali soppressero così tutte le festività pagane, pertanto il rito della nave Iside si svolse, per l’ultima volta, nel 406 d.C. Le maschere, quelle intese come manifestazioni pagane e demoniache sopravvissero però nelle zone montane e rurali tra i contadini. La Chiesa si rese conto che non sarebbe riuscita a cancellare totalmente questi riti e scelse di ricondurli all’interno del perimetro del cristianesimo. Le feste non furono più legate alla natura, alla sua rinascita primaverile e all’esorcizzazione della sua sconosciuta forza sovrastante sull’uomo, e soprattutto agli dei. Ma furono legate all’inizio della quaresima: i quaranta giorni prima della Pasqua. Il carnevale doveva perciò precedere questo periodo di astinenza e digiuno. Per pochi giorni, da giovedì a martedì, cosiddetti grassi. Perché in quelle giornate si uccideva il maiale, da cui si toglieva la sua carne, la quale veniva consumava in abbondanza, proprio prima della quaresima. Una pratica da cui deriverebbe, secondo i più, il termine carnevale, dal latino popolare carnem levare (togliere la carne). Tutto durava fino al giorno di chiusura dei festeggiamenti carnevaleschi, il Martedì grasso, dato che la Quaresima inizia con il Mercoledì delle ceneri, quando il parroco cattolico sparge la cenere sul capo dei fedeli annunciando: Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris (Uomo ricorda, sei polvere e polvere tornerai).
Tuttavia la Chiesa non riuscì a togliere completamente tutta la forza propria del carnevale originario. Le cui giornate rimasero infatti di libero sfogo degli istinti. E così anche nel Medioevo, come nella Francia del XII e XVII secolo, dove il carnevale coincise con la festa dei folli (fête des fous). Festa (derivata dalle Saturnali) che durava tre giorni, tra il 26 e il 28 dicembre, in cui si dava libero sfogo a gesti folli per sovvertire il rigido ordine tradizionale a cui tutti dovevano sottostare. Tra il popolo veniva anche eletto l’episcopus stultorum, il papa dei folli, che impartiva benedizioni fittizie sfilando sopra un carro tra le vie principali della città. La festa è anche menzionata nel romanzo Notre Dame de Paris di Victor Hugo (pubblicato nel 1813, ma ambientato nella Parigi del 1482), quando Quasimodo viene eletto appunto papa dei folli. La festa dei folli (detta anche festa stultorum) era considerata un momento di pazzia collettiva fatta di una sregolatezza riconosciuta, normalmente controllata, ma non sempre. Perciò la festa fu abolita dal Consiglio ecumenico di Basilea del 1431, anche se, ufficialmente, ne fu imposto il divieto della celebrazione solo nel 1519.

Anche a Venezia – dove il carnevale fu dichiarato festa pubblica già nel 1296 – nel 1339 vennero posti dei limiti agli eccessi di sregolatezza dei mascherati, a cui fu proibito di girare indossando la maschera di notte e, successivamente nel 1458, vennero vietati agli uomini travestimenti, quali quelli degli ecclesiasti o di donne, per evitare che entrassero nei monasteri e conventi attentando alle virtù delle monache e delle suore. Il carnevale di Venezia è legato anche alla nascita delle maschere della Commedia dell’arte, con Arlecchino, Colombina e tutti gli altri personaggi. Le rappresentazioni di attori mascherati cominciarono nel Cinquecento per poi diventare, nel secolo successivo, spettacoli itineranti.

Risalgono all’epoca medioevale altri famosi carnevali, come quello di Fano, di cui si trova traccia nel 1347, ma probabilmente nato anche prima (uno dei più antichi in Italia insieme a quello di Venezia) per celebrare, con sfilate e lancio di fiori, la riconciliazione tra guelfi e ghibellini. In epoca medievale le discordie tra le nobili famiglie della città appartenenti alle fazioni politiche rivali dei Guelfi (i Del Cassero) e dei Ghibellini (i Da Carignano) portarono a lotte fra loro, di cui si approfittarono i Malatesta di Rimini. Vicende descritte anche da Dante Alighieri nel XXVIII Canto dell’Inferno della Divina Commedia. I Malatesta, nominati vicari del Papa, governarono così a Fano per circa due secoli.
Nel Medioevo si affermò anche la sfilata dei carri. Quasi a riesumare il rito del carro di Iside. Le sfilate più imponenti si svolsero a Firenze dell’illuminato Lorenzo de’ Medici. I carri allegorici, in maschera, sfilavano accompagnati da canti carnascialeschi (carnevaleschi). Di cui, Il più famoso, detto Il trionfo di Bacco e Arianna, fu composto proprio da Lorenzo de’ Medici in occasione del Carnevale del 1490:
Quant’è bella giovinezza, // che si fugge tuttavia! // chi vuol esser lieto, sia: // di doman non c’è certezza…
La tradizione di queste parate di carri mascherati nel periodo di Carnevale ebbe grande fortuna anche in tutto il Cinquecento.

Il carnevale mantiene ancora oggi intatta molta della sua vena di follia un po’ in tutto il mondo. A Colonia, in Germania, il carnevale (karneval, sempre di origine medioevale) si apre con la festa delle donne. Le donne, armate di forbici e al grido di Kölle Alaaf (frase dialettale traducibile in: Colonia è difficile da abbattere), vanno in giro alla ricerca di uomini con la cravatta, per poi tagliargliela e per ricevere dagli stessi “malcapitati”, non un rimbrotto, ma un bacio.
Nella città di Solothurn (Soletta), vicino a Berna, in Svizzera, si celebra il carnevale hawaiano. Per l’occasione Solothurn cambia il suo nome in Honolulu. Pare, infatti, che si trovi esattamente agli antipodi delle Hawaii, o almeno ne sono convinti da secoli i suoi abitanti. Viene destituito il sindaco della città e la via del Municipio diventa “via dell’Asino”. I festeggiamenti entrano nel vivo alle 5 del mattino del giovedì grasso con il Chesslete, il chiassoso corteo armato di fiaccole e di strumenti assordanti che attraversa la città vecchia svegliando chi dorme.

In Valle d’Aosta i carnevali della Coumba Freida (valle fredda o conca fredda, a causa degli gli spifferi gelidi che soffiano nella regione della Valle del Gran San Bernardo dove si celebra la festa), sono fuori del comune, ricchi di mistero e di storia. Tutti i comuni delle vallate, con varianti più o meno importanti, hanno maschere e consuetudini simili. I costumi tipici di questo spettacolo rievocano il passaggio dei soldati al seguito di Napoleone nel maggio del 1800 e le landzette, le bizzarre maschere di questo carnevale, indossano costumi colorati e cappelli che ricordano le uniformi napoleoniche.

In Sud America, l’emblema di questa festa è il carnevale di Rio de Janeiro, dove tutta la città si trasforma in un immenso palco, grazie alle oltre duecento scuole di ballo che rappresentano i quartieri della città e si contendono lo scettro per lo spettacolo migliore, sotto l’egida di Momo, il re del Carnevale (rei Momo). La narrazione vuole che Momo fosse un dio burlone alla Corte di Giove, espulso dall’Olimpo dagli altri dei e mandato sulla Terra per dispetto dove, solo e triste, per rallegrarsi diede vita al Carnevale.
Ma è celebre anche il carnevale di Puno, sulla sponda nordoccidentale del lago Titicaca, in Perù. I Carnavales di Puno si celebrano per tutto il mese di febbraio e la città si anima di feste e celebrazioni tradizionali, piene di energia, musica e balli e giochi con polveri colorate, coriandoli, schiuma e acqua, che creano un’ulteriore atmosfera festosa e allegra.

Ad Arica, non tanto distante da Puno, ma in Cile, nella sua parte settentrionale confinante con il Perù, si celebra il Carnaval Andino con la Fuerza del Sol che fonde tradizioni indigene, influenze coloniali e creatività moderna. La città diventa in quei giorni un enorme palcoscenico per spettacoli e danze esuberanti, al ritmo musicale delle bande cilene insieme a quelle provenienti da Perù e Bolivia. Un carnevale autentico nelle sue vibranti espressioni della cultura andina. È riconosciuto tra i più grandi del suo genere in tutta l’America del Sud. Dura ininterrottamente per tre giorni, nei quali si riuniscono più di 160.000 persone, tra spettatori e artisti, di cui 16.000 ballerini e bande, che si esibiscono lungo il centro storico di Arica.

Le celebrazioni di Panaji, nel distretto di Goa, in India, rappresentano invece un importante carnevale asiatico, probabilmente originato, a partire dal XVI secolo, dai quattrocentocinquant’anni di dominazione portoghese. È un festival di luci e colori che offre uno spettacolo unico, già dai preparativi che durano diversi giorni prima dell’inizio ufficiale, il Martedì grasso. Così si intensifica la diffusione dell’atmosfera carnevalesca fino all’arrivo delle decine di carri allegorici e le diverse centinaia, tra residenti e turisti, di gioiosi partecipanti che assistono, ogni anno, all’elezione del re del caos, il king Momo, che presiede ai festeggiamenti.

I carri sfilano anche In Italia, in particolare nei carnevali di Viareggio, Cento (gemellato con il carnevale di Rio), Ivrea e Sciacca. A Ivrea c’è la celeberrima Battaglia delle arance, mentre a Sciacca (sempre in rivalità con il carnevale di Acireale) vengono realizzate splendide opere in cartapesta. L’utilizzo della cartapesta a fini artistici era noto in Italia sin dal Cinquecento, dato che già allora si realizzarono statue a carattere sacro a somiglianza di quelle di legno. Ma le figure di cartapesta carnevalesche divennero famose quando furono introdotte dal viareggino Antonio D’Arliano (insieme ai fratelli Alfredo e Michele Pardini) nel 1925, perché essendo più leggere rispetto a quelle in gesso o legno, poterono assumere grandi dimensioni, alte anche venti metri.
La battaglia delle arance del carnevale di Ivrea, tiene sempre vivo il ricordo delle lotte che i cittadini hanno portato avanti nei secoli per non soccombere ai soprusi dei tiranni. Ebbe origine nel medioevo quando i feudatari regalavano, una sola volta all’anno, una sola cesta di fagioli al popolo. Che sdegnato di tale dono misero cominciò a lanciare i fagioli dalle finestre. Dai fagioli si passò ai coriandoli, poi ai confetti e infine alle arance. Con la conseguente polemica: perché sprecare, ogni anno, ben 600 tonnellate di arance lanciandole e distruggendole a terra? In realtà gli agrumi lanciati non hanno le caratteristiche adatte al consumo umano, ovvero non sono buone da mangiare. Inoltre le arance dopo essere state lanciate, vengono raccolte per produrre compost, concime naturale per uso agricolo.

L’utilizzo degli attuali coriandoli è anch’essa un’eredità della tradizione carnevalesca medievale, quando c’era l’usanza di glassare con lo zucchero i semi di coriandolo, da cui appunto nasce il termine. Successivamente, in epoca rinascimentale, i semi di coriandolo glassati con zucchero cominciarono ad essere lanciati dai carri, come fossero piccoli confetti. Infatti in inglese anche gli attuali coriandoli vengono chiamati confetti: carnival confetti (coriandoli di carnevale).
Al posto dei “confetti di coriandolo” furono poi utilizzate palline di gesso colorato, più economiche e variopinte. Al contrario, la sostituzione del gesso con la carta risulta molto più recente: nel 1876 il triestino Ettore Fenderl, allora ragazzino, pensò di ritagliare pezzetti di carta per sostituire i coriandoli di gesso che non poteva permettersi di comprare. Ma già l’anno prima, nel 1875, Enrico Mangili nel paese di Crescenzago, vicino Milano, cominciò a usare i dischetti di scarto dei fogli di carta usati per l’allevamento dei bachi da seta.

Pur nel panorama dei famosi e meravigliosi carnevali citati, va ricordato che resistono ancora alcuni carnevali ancestrali come i mostri di Lötschental in Svizzera. Dove i personaggi carnevaleschi, le Tschäggättä, hanno maschere in legno di pino cembro e abiti di pelli di capra o di pecora e una campana allacciata alla cintura. Si aggirano per le strade dei villaggi inseguendo donne e bambini e, dopo averli acchiappati, strofinano sui loro volti i guanti intrisi di neve.
Anche in Italia, nelle zone alpine del Trentino, dell’Alto Adige e del Veneto, vi sono cortei mascherati, diversi fra loro, ma caratterizzati da maschere raffiguranti diavoli e personaggi terrificanti come gli animaleschi krampus, figure demoniache. Oppure come i matoci, reminescenze buffonesche di un passato contadino.

Il rito ancestrale più famoso si trova però in Sardegna a Mamoiada, in provincia di Nuoro. Dove i mamuthones, uomini col viso ricoperto da una maschera nera dai rozzi lineamenti, vestiti con pellicce scure e provvisti di campanacci appesi sulla schiena, avanzano lentamente come sfiniti dal peso della fatica, simboleggiando i ritmi della natura e della lotta contro le “forze del male”. Attorno a loro si esibiscono i colorati issohadores, uomini vestiti in corpetto rosso, con maschera bianca e un piccolo scialle, che scortano i mamuthones scagliando lacci verso gli spettatori per donare loro, simbolicamente, prosperità.

E in questo breve itinerario tra “il Giovedì e il Martedì grasso” nel mondo, ora viene solo da chiedersi: dove andrò il prossimo Carnevale?
Vincenzo Basili