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I “cuciarùl”, golosità antica

N. 88- Aprile 2024

 

 

 

I “cuciarùl”, golosità antica

Nel vocabolario Italiano-Romagnolo di Libero Ercolani, la voce “cuciarùl” (singolare cuciaröl) sta per castagne secche, da un lemma ravennate del sec. XVII, “cucchiarole”, castagne secche. Hanno una caratteristica lessicale, nel senso che dall’antico femminile originale di cui sopra (castagne secche – cucchiarole) si sono travasate in una declinazione al maschile nell’italiano corrente e nella parlata dialettale romagnola (cucchiaroli – cuciarùl). Lingua a parte, gli usi conosciuti le vedono come cibo in preparazioni diverse, fra queste la cottura lessandole in acqua e vino con qualche variante aromatica, divenendo così cuciarùl d’aspetto e di fatto secondo tradizione. Sotto tale forma sembra abbiano riguadagnato un proprio spazio gastronomico sull’onda della riscoperta dei piatti poveri. Le castagne sono state per la gente del territorio montano di tutta l’Emilia-Romagna un prezioso frutto dei boschi, un alimento insostituibile per la popolazione di quei luoghi. Oggi fanno parte del comune giro ortofrutticolo stagionale (fatte salve le problematiche derivanti dal nuovo parassita, la vespa del castagno), ma un tempo erano una delle più importanti fonti alimentari per la popolazione di collina e montagna. Conservate in varie forme, semplicemente seccate oppure macinate, grazie al loro alto valore calorico fornivano durante l’inverno un sostanzioso alimento sotto forma di minestre, polenta, frittelle, castagnaccio. Sostentamento importante per mense povere, quando per il lavoro e il trasporto si usavano i muli e quando, in senso reale e non allegorico, del maiale non si buttava via proprio nulla. In questo periodo festivo, la “navigazione” mentale a volte si sofferma su alcune reminiscenze improvvise che richiedono una “cliccata” per il ripescaggio di qualche lontano flash adolescenziale. I cuciarùl appunto, le castagne secche lessate in acqua e vino, da mangiare calde (maschile e femminile continuano a inseguirsi) nel loro ammollo odoroso dopo il pranzo o la cena, d’inverno. Un alimento vero e proprio per le vecchie famiglie contadine di montagna, un estemporaneo dolce accompagnamento al pranzo o alla cena sulle tavole di città. In città le castagne secche si compravano già spellate a “e’ spàzi” (allo spaccio), il negozietto di quartiere, piccolo bazar, che vendeva generi alimentari, quaderni, bombole del gas e quant’altro. Si portavano a casa nel cartoccio di carta gialla, come del resto ogni altro genere allora venduto alla rinfusa (zucchero, farina, riso, pasta). Oppure si compravano da “qvi dal garnèl” (quelli delle granelle, letteralmente), cioè nei negozi (quasi magazzini) che vendevano granaglie e legumi sfusi. Ovviamente sempre nel cartoccio. Noi a casa le conservavamo in un boccaccio di vetro con il coperchio in bachelite, e le preparavamo qualche volta la sera, dopo cena. Si mangiavano nelle tazze del caffellatte. A illuminare la cucina, unica stanza riscaldata (con la “stuva” a legna, la cosiddetta “stufa economica”), c’era una sola lampadina con il paralume a piatto di vetro bianco. La corrente elettrica era a 125 volt e la radio accesa promanava il fascino verde dell’”occhio magico”, l’indicatore di sintonia per accordare il segnale delle emittenti. Flash natalizi. Buone feste di cuore a tutti. Con i cuciarùl, se volete.

Roberto Aguzzoni

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