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Gli scacchi di Samarcanda

N. 88- Aprile 2024

 

 

 

Gli scacchi di Samarcanda

Viaggio degli occhi e del sogno nella mitica città blu in compagnia di Tamerlano.

Samarcanda è una destinazione che molti si portano dentro dall’infanzia. Luogo mitico che, quando negli anni 60 gli atlanti sono album più lunghi del tavolo su cui vengono aperti, il dito cerca nella pagina del Centro-Asia. L’unghietta di bimbo si sposta sull’immenso territorio russo, indugia intorno al blu del lago d’Aral, scende giù per l’arancio di un deserto. Accanto a un puntino rosso l’inchiostro, inclinato a oriente, scrive Samarqand, la corretta denominazione uzbeka. E lì, sotto le palpebre chiuse, scorrono cupole turchine che circondano mercati colorati dai tappeti di seta, dalle piramidi di zafferano/pepe/chiodi di garofano, dai cammelli bruni cui stanno caricando il basto……

Tamerlano (o Timur Lang) nasce l’8 aprile 1336 a Kesh, oggi Shahrisabz, 50 km a sud di Samarcanda. Ha una genetica lussureggiante visto che proviene dalla tribù dei Barlas, formatasi da padri mongoli, ex guerrieri di Gengis Khan, e da donne turche o indo-iraniche. Tamerlano è alto più di un metro e settanta, una rarità nel XIV secolo. Ha il petto largo da Achille dopato, braccia e mani incordate di vene, una tartaruga di addominali che al confronto Cristiano Ronaldo è il coperchio arrotolato di una scatola di sardine. Gli occhi color cervo saltano di qua e di là e se si fermano è per fare un veloce punto dell’universo. I capelli sono una rissa di riccioli ambrati. Il volto è magro e le guance lisce scendono come parentesi per unirsi sul mento appena sporgente. Un filo di barba rossastra ricama la cresta della mandibola.

Se ci fosse Amazon a recapitare in giro “carisma di Tamerlano”, il grande uzbeko sarebbe l’uomo più ricco del mondo. A 16 anni comanda una guarnigione di arcieri. E dai venti ai settant’anni è il capo di un esercito con generali valorosi/strateghi insuperabili/cavalli kirghisi/qualche elefante/un macrocosmo di soldati provenienti da Siria, Persia, Egitto, Armenia, Georgia, sponde del Caspio, steppe siberiane, India del nord, Mongolia. Mai una sconfitta, mai una defezione. (Anche le pompe funebri farebbero fortuna con i 17 milioni di vittime di Tamerlano & co., le quali, come scrive Christopher Marlowe, formano torrenti di sangue vasti e profondi come Eufrate e Nilo).

I cavalli dell’Apocalisse

Un giorno di primavera del 1404 Tamerlano è nella sua Samarcanda, capitale dell’impero, abbellita di madrase e moschee che sfumano dall’azzurro intenso al celeste pallido. Il grande Emiro (così si fa chiamare) decide di recarsi ai mausolei funerari di Shah-i-Zinda, da lui voluti nel luogo dove già esiste la tomba del cugino decapitato di Maometto. Timur è in sella a un cavallo bianco come il primo cavallo dell’Apocalisse. Indossa un giaccone di pelle marrone. Un colbacco scuro gli lascia scoperte due dita di fronte, sopra le sopracciglia marezzate d’argento.

Dietro Timur trottano tre cavalli allineati. Uno, rosso come il secondo cavallo dell’Apocalisse, è montato dalla guardia del corpo, con elmetto e spadone sguainato. Un altro, nero come il terzo cavallo dell’Apocalisse, è cavalcato da una sorta di druido asiatico, magro/lunga barba candida/capelli grigi raccolti in coda/tunica immacolata. L’ultimo, giallastro come il quarto cavallo dell’Apocalisse, issa una specie di maestro daoshi, paffutello/pizzetto asfittico/mantello rosso e zuccotto idem. A fianco di Timur caracolla Gulchera, la tigre albina che Timur ha avuto in dono da un governatore persiano, mansueta come un gattone castrato.

I due facsimili di sacerdoti sono Sciamani Tempestari, capaci di far piovere quando vogliono. Tamerlano li ha utilizzati in diverse battaglie, in modo da infradiciare il terreno e impantanare lo schieramento nemico.

 -Vorrei una pioggia malinconica- chiede Timur.

I Tempestari sollevano come ostie due grossi smeraldi, le pietre Bezoar. Recitano una formula magica, tipo “Bididibodidibù, adesso piove da lassù”.

Soffia un vento freschissimo/Il cielo viene occupato all’istante da un nuvolone compatto e plumbeo/Mugugna un tuono e la nube si abbassa tanto che giraffe potrebbero occultarci le teste/Cadono le prime gocce, allungate come spilli/La terra si profuma quasi dovesse andare a un incontro galante/Poi le gocce si arrotondano come orecchini che tentano di appendersi al vento/Poi è scroscio, s-c-r-sc pronunciate in piovigginese con lettere liquide/Sotto la sferza dell’acqua i gelsi si fanno chiassosi/E cade pioggia, cade dal nembo inseminato a lucciconi/E la malinconia si versa nelle vene col tepore di un thè al gusto di bosco.

Finito di piovere un sole giallo sbuca come un soldo dalla tasca del nuvolone.

Lo chartak o porta d’entrata dello Shah-i-Zinda è un foro a ogiva in un enorme rettangolo turchese. Di fronte c’è una vecchia scuderia convertita a setificio. Scesi da cavallo, Timur e il guardaspalle entrano nel laboratorio. È il periodo in cui i bachicoltori curano con grande attenzione le uova deposte dalla farfalla morente Bombyx mori. Mille uova pesano un grammo. Ad aprile le uova si schiudono e i bachi appena nati cominciano subito a mangiare con ingordigia. Anche se non hanno occhi e si muovono appena, sono schizzinosi: trangugiano solo foglie di gelso fresche, che devono essere colte dopo l’evaporazione della rugiada ed essere servite ogni mezz’ora. Per un mese i bachi da seta non fanno altro che nutrirsi e defecare. Gli allevatori li foraggiano a getto continuo e puliscono a ripetizione le loro ceste. I bachi sono delicatissimi e possono morire per un rumore forte, per un odore intenso, per uno sbalzo di temperatura, per un’igiene approssimativa. Per un chilo di seta occorrono due quintali di foglie di gelso. Quando i bachi hanno fatto la muta quattro volte e superato i 5 cm di lunghezza, smettono di taffiare e iniziano a filare.

Tamerlano gira tra le ceste pullulanti di vermetti biancastri. Ad ogni bachicoltore batte la mano sulla schiena.

La scacchiera di Al Biruni

Fuori dalla seteria Timur trova due sedie vuote e una donna avvolta in ampio mantello nero. Un cappuccio le copre i capelli. Il colore olivastro del viso si oppone agli occhi blu di Persia.

-Ci giochiamo anima e corpo insieme? – propone la donna.

-Vuoi approfittare della mia malinconia? – domanda Timur.

-Perché no? –

-A che giochiamo? – chiede Timur.

-A scacchi-

La donna estrae dal mantello una scacchiera.

-Scacchi classici- constata Timur.

È la scacchiera di Al Biruni- rivela la donna.

(Al-Biruni è un filosofo/astronomo/matematico nato nel 973 in Corasmia, l’attuale regione uzbeka del Khwarizm. È l’ideatore del problema dei chicchi di grano e della scacchiera: se si mette un chicco di grano sulla prima casella, poi si raddoppia il numero per ogni casella successiva, ossia, due chicchi sulla seconda, quattro sulla terza, otto sulla quarta, e così via fino ad averle coperte tutte e 64, quanti chicchi occorrono in totale? La soluzione di Al-Biruni è 18.446.774.073.709.551.615, ovvero 18 trilioni, 446 biliardi, 774 bilioni, 73 miliardi, 709 milioni, 551 mila e 615. Tanto grano pesa 460 miliardi di tonnellate e compone una montagna enorme quanto l’Everest … un Everest che sta dunque su una scacchiera…)

-Vada per gli scacchi classici- accetta Timur.

-Lo so che tu hai creato una scacchiera più grande- dice la donna.

(A 35 anni Tamerlano inventa una scacchiera maggiorata con un lato di 11 caselle e l’altro di 10, per un totale di 110 caselle. Due caselle ulteriori sporgono, una dal lato sinistro della nona fila e una dal lato destro della seconda fila: sono dette cittadelle e se il re avversario ci capita la partita è patta. Su 112 quadrati si muovono i pezzi tradizionali più altri pezzi originali, elefanti/cammelli/giraffe/macchine da guerra/generali/visir)

La donna e Timur occupano le sedie. La scacchiera viene appoggiata su un tronco d’albero tagliato. La tigre si accuccia a lato del grande Emiro.

-Preferisco il nero, mi si addice- sceglie la donna.

Timur apre muovendo il pedone bianco di re.

-Ti ripeto che ci giochiamo la tua vita- ribadisce la donna.

-È passato il tempo, Signora, in cui “la tua stella è stata troppo debole per sfidare la forza di Tamerlano” – dice Timur con parole condivise da Christopher Marlowe.

-Ora il tuo prezzo si è abbassato? – domanda la donna.

-Pochi uomini esistono dentro un principio di indeterminazione per cui non si può definire contemporaneamente la vita, o posizione, e il suo prezzo, o velocità- filosofeggia Timur.

-Non ti resta che perdere a scacchi- deduce la donna.

-Sì, ma tu sai che “il Dio che muove la sfera tempestata di mille astri perenni brucerebbe la fabbrica stessa del cielo anziché cospirare per rovinarmi” – asserisce Timur sempre spalleggiato da Marlowe.

-Anche Dio, a volte, gioca a dadi, alla carta più alta, a scacchi- sentenzia la donna.

La partita è veloce. Timur si procura un lieve vantaggio.

-Signora, non ti ho mai visto qui- dice Timur.

-Ho trascorso gli ultimi tempi a Bukhara, in festa per la fine di una battaglia: “divise bruciate nel fuoco la sera, vino, balli e musica di tamburelli fino all’aurora” –

-Perché ti sei trasferita? –

-Ho cominciato una partita a scacchi con un giovane soldato, ma, d’improvviso, lui se ne è andato dicendo che lo guardavo con malignità-

-E invece era solo uno sguardo stupito- chiosa Timur.

Il vantaggio di Tamerlano aumenta e lo scacco matto è questione di una mossa soltanto.

-Stai per vincere- ammette la donna.

-Nessuna vittoria è per sempre- rimpalla Timur.

-Niente è per sempre- asserisce la donna.

-Niente non è niente- obietta Timur.

Spostando la regina Timur può dare matto al re nero.  Ma Tamerlano afferra con due dita il suo re bianco e lo rovescia sulla scacchiera, dichiarando la propria sconfitta.

La donna ride.

-Decido io quando morire- afferma Tamerlano.

Il grande Emiro varca la soglia del cimitero Shah-i-Zinda, seguito da tigre e bodyguard. Dopo una breve gradinata un vialetto in terra battuta separa maestose tombe, mausolei interamente decorati di piastrelle di maiolica o terracotta bianche/oro/acquamarina/blu polvere/blu pavone/blu scuro/zaffiro. Timur si sofferma davanti al monumento sepolcrale della sua levatrice: è dolce pensare alla prima mano che ti ha toccato e ti ha fatto entrare nel mondo. Poi Tamerlano sosta davanti al mastodontico sepolcro della sua balia: a chi dire grazie se non alla donna che ti ha nutrito finché tu fossi in grado di servirti dei frutti della terra? Poi il grande Emiro temporeggia davanti alla megatomba di sua sorella Shadi Mulk Oko, con cui ha cominciato a giocare a scacchi. E infine Timur passa le dita sull’edificio funerario della nipote Shirin Bek Ata, di cui ricorda il profumo di cannella, l’odore della santità.

La malinconia di Tamerlano è tristezza leggera, lieve foschia di un uomo solare, delizioso sapore del momento penultimo.

Fuori dallo Shah-i-Zinda Timur vede che la donna ha iniziato un’altra partita a scacchi. Ha di fronte un ragazzo dalla pelle nocciola, scarmigliato, coi pantaloni rossi strappati sulla coscia, Porta stivali da soldato, alti e senza tacco. Il suo cavallo baio, legato a un gelso, nitrisce spaventato (oh oh cavallo, figlio del lampo, degno di un re, bestia più veloce che c’è).

-Il nostro appuntamento è qui, oggi, a Samarcanda. Sei stato bravo ad arrivare in due giorni da Bukhara- dice la donna.

Mosse. Contromosse. Pezzi mangiati. Matto inappellabile. Gli scacchi neri si aggiudicano la sfida. Il ragazzo piglia il suo re bianco e lo scaglia lontano. Poi cade dalla sedia, sputa sangue, strabuzza gli occhi, muore.

(Io visito Shah-i-Zinda nel settembre 2017. Luogo magnifico, bellezza che salva il mondo. Altri mausolei sono costruiti dopo Timur, in tinta con i precedenti. Viene eretta anche una moschea con due minareti che paiono missili cobalto pronti al decollo. Sfato così anche il mito da bambino che relega l’Uzbekistan ai confini della geografia: non è poi così lontana Samarcanda. Soprattutto se non hai appuntamento per una giocata a scacchi).

La guerra alla neve

Tamerlano si congeda dal mondo terrestre nove mesi dopo la sua partita a scacchi, il 19 gennaio del 1405. Se ne va a Otar, oggi territorio kazako, non lontano da Samarcanda. Durante l’estate Timur raduna un esercito sterminato con cui attaccare la Cina, dove regna il primo imperatore della Dinastia Ming. Secondo una strategia già collaudata Timur inizia la campagna a dicembre, in modo che l’inverno lo aiuti a cogliere di sorpresa il nemico. Ma, dopo aver attraversato il ghiaccio solido del fiume Syr Darya, una nevicata epocale, con fiocchi grandi come capsule d’oppio, scombina i suoi piani. Le truppe non riescono più ad avanzare e anzi stanno per essere soffocate da una enorme trapunta candida. I generali sostengono che occorre subito fare marcia indietro, che non si può competere contro la forza esagerata della natura.

Tamerlano sale su un piccolo colle che centimetro dopo centimetro viene innevato. Si denuda e rimane tre giorni e mezzo così, svestito, a farsi urtare dalla bufera bianca. Qualcuno dei soldati dice che Tamerlano voglia provare che nulla possa fermarlo, nemmeno le condizioni impossibili… Ma Tamerlano ha stabilito la sua morte e vuole dimostrare quale impegno straordinario di forze terrene occorra per farlo fuori. Dopo 90 ore il grande Emiro si inginocchia, raggela in un attimo, spira.

Carlo Maria MilazzoFoto LBM1948, CC BY-SA 4.0

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