Gli enigmi di Delfi
Sapere o non sapere, questo è il problema? Quanta verità può sopportare un uomo? Qual è il prezzo per conoscere se stessi?
Adamo ed Eva mangiano il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male e subito precipitano nel dolore e nel sudore (se Iddio avesse voluto che gli inquilini dell’eden non trangugiassero la mela avrebbe dovuto proibire di toccare il serpente: quei due glielo avrebbero portato arrosto). Ulisse catechizza i marinai per remare nell’inesplorato (“fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”): immediatamente la nave viene ingoiata dal mare avverso. Giordano Bruno, reo di eclettismo e del pensare l’infinito più infinito di quello assai finito dell’inquisizione cattolica finisce bruciato come una verruca.
Chi condanna i sopramenzionati inventa IL PECCATO DI TRACOTANZA. (È tracotanza ritenere con Eva che il paradiso sia una scelta al ribasso!? È tracotanza non distinguere con Ulisse i confini nell’oceano!? È tracotanza affermare con Giordano Bruno che l’abitudine a credere sia impedimento alla conoscenza!?)
Ritengo che il luogo simbolo del rischio del voler sapere sia Delfi. Lì, l’oracolo di Apollo svela un destino, però sommariamente, lasciando aperte le interpretazioni.
Il bus per Delfi parte da Itea, bianco paese geometrico schiacciato tra golfo di Corinto, inesorabilmente turchino, e monte Parnaso, poderoso e verdognolo. Dopo 15 km di curve morbide si raggiunge, a 600 metri, l’antico santuario delfico. Per arrivare alla zona archeologica si passa dalla fonte Castalia, in cui fanno il bagno e si purificano quelli che vogliono chiedere un oracolo. Poi ci si inerpica per la Via Sacra.
Io affronto il percorso in salita nell’aprile 2024. Cielo fotocopia del mare/aria dolce come un peluche strofinato in faccia/fanfara di usignoli all’ingresso della Via. I monumenti sovrastano, a irridere la pochezza del pellegrino. La strada è lastricata e fiancheggiata da ex voto, statue/colonne/piccoli templi/esedre, a ricordo di vittorie belliche. Arcadi, Lacedemoni, Argivi, Tarentini erigono qualcosa per ringraziare gli dèi, soprattutto Apollo, dei successi in battaglia.
Dopo la prima curva e l’inizio della seconda rampa appaiono i ruderi del tesoro dei Tebani, tempietto in pietra calcarea locale. Poi il tesoro degli Ateniesi, tempietto dorico in marmo proveniente dal bottino di Maratona (490 a.C.). Poi le rocce del primitivo santuario della Ghè.
La Via Sacra descrive quindi una seconda curva e la successiva rampa porta alla soglia del tempio di Apollo. Nella spianata antistante l’edificio vengono sacrificati i tori: il terreno puzza ancora di sangue e sbuffi di vento portano muggiti terrorizzati. Il tempio, del IV secolo a.C., è un periptero dorico, costituito cioè da cella centrale interamente circondata da colonnati. Le colonne sono 6 sulle fronti e 15 sui lati, in tufo stuccato. Il centro è l’àdyton, collegato a una camera sotterranea in cui, saltuariamente, si acquatta la Pizia.
La Pizia è la sacerdotessa incartapecorita che dà voce all’oracolo di Apollo. Lei siede sull’ònfalos, pietra che è l’ombelico del mondo (Zeus fa spiccare il volo dagli antipodi della terra a due aquile. Il punto in cui si incontrano, proprio a Delfi, è il centro del pianeta).
Jovanotti dà una delucidazione oracolare sull’ombelico del mondo, luogo “dove non si sa dove si va a finire, risalendo dentro se stessi alla sorgente del respirare. È qui che si incontrano uomini nudi con un bagaglio di fantasia”.
Il postulante si pone nell’àdyton, accanto a un tripode con braci rosse che occhieggiano sotto giallo velluto di cenere. La Pizia parla con voce spalata da una cava di ghiaia, rotta da pause piene di saliva. Dal foro di uscita delle sue parole fuma anche un imbuto di nebbiolina palpitante.
Quando, dopo i responsi, la Pizia lascia l’antro dei vaticini, si mostra nella sua bruttezza: bingo di rughe/occhi vetrosi, uno puntato diritto e l’altro a ovest/sopracciglia disallineate/capelli grigi in burrasca/mano tremante come foglia con sopra un bruco obeso/andatura barcollante.
Come già accennato, gli oracoli sono spesso approssimativi, lacunosi, strani, ambigui. Occasionalmente paiono prendere in giro.
Spesso le parole definiscono, creano confini. Le parole possono circoscrivere un mondo che, essendo risolto, diventa “morto”. In principio è la Parola e tramite la parola Iddio materializza il mondo, che, appena conformato, ha la sua data di scadenza. La parola perfetta dà vita a un mondo grandioso che tuttavia, come un fiore stupendo sbocciato, è destinato a cadere.
Probabilmente è meglio non conoscere parole che diano origine. Probabilmente è meglio limitarsi a parole adatte.
Scrive Mark Twain: “tra una parola perfetta e una semplicemente adatta, c’è la stessa differenza che passa tra un lampo e una lucciola”. Un lampo folgora e carbonizza. Una lucciola è poesia fatta bagliore.
La Pizia sceglie parole di lucciola, debolmente rischiaranti. Ciò in ottemperanza al motto che è inciso nel tempio: “Medén Agan” (nulla di troppo). Non esagerare, non pretendere di sapere oltre misura. Il superamento del limite sapienziale getta quasi sicuramente nella pazzia (e bisogna arrivare ai nostri anni 60 per imbattersi nell’iperbole dello psichiatra scozzese Ronald Laing per cui solo nella pazzia c’è vita).
Che responsi generici potrebbe dare la Pizia? Che so, al generale Lisandro potrebbe dire -Sparta-Atene non finirà in pareggio- E al filosofo Democrito potrebbe suggerire: -Cogli l’atomo- E al tragediografo Eschilo potrebbe profetizzare: -Gli asini non volano, ma le testuggini sì- (Eschilo muore colpito da una tartaruga sganciata da un’aquila)
Se la Pizia vociferasse anche oggi io le chiederei: -Avranno successo le mie opere? – La Pizia risponderebbe: -Successo è un participio passato-
Laio, re di Tebe, si reca dalla Pizia per domandarle come mai lui e la consorte Giocasta non hanno figli. Laio sculetta, ha le labbra ripassate col rossetto, una sciarpetta di lino rosa, delle margherite tra le punte della corona. Laio e la moglie hanno un’affinità: entrambi preferiscono le giovani reclute. No fylo (sesso), no gonimopolisi (fecondazione). Ma chissà, parole apollinee possono offrire giustificazioni più auliche da offrire ai sudditi a riguardo della mancanza di un rampollo.
La Pizia comunica: -Laio, verrai ucciso da tuo figlio che si unirà alla tua sposa-
Laio pensa a uno sproloquio vista la sua renitenza alla vagina.
Una notte, Giocasta si mette una corazza di lana e cuoio. Impugna uno scudo. Sottomette l’alveare di capelli color miele a un elmo. Bestemmia come un soldato in partenza per una guerra.
Laio si ubriaca ed ecco, viene concepito Edipo che, nove mesi dopo, irrompe nel mondo.
Memore della Pizia, il re tebano strappa il figlio dalle braccia della nutrice, gli fora le caviglie e lo fa abbandonare da un servo in una foresta. Il piccolo viene trovato da un pastore che lo porta a Peribea, moglie sterile di Polibo, re di Corinto. Il bimbo cresce con questi genitori che non gli rivelano di essere adottanti (e sono loro a mettergli nome Edipo per i piedi gonfi di quando è stato rinvenuto).
Qualcosa però insospettisce Edipo giovanetto: le somiglianze ereditarie latitano. Nessuno gli racconta della sua nascita. Nessuno vuol precisare come mai non abbia fratelli o sorelle. Perché non sentire se la Pizia ha rivelazioni su diversità genetica, omertà sul parto, sindrome del figlio unico?
Edipo si presenta a Delfi, massiccio come un orso/labbra che non hanno imparato il sorriso/capelli color miele artigliati dal vento. La Pizia è categorica: -Edipo, ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre-
Il ragazzo pensa pure lui a uno sproloquio: perché mai dovrebbe accoppare Polibo? E poi andare a letto con Peribea che non gli ha mai provocato un sussulto erotico?
Comunque, per stare dalla parte dei bottoni, Edipo non rientra a Corinto e punta su Tebe.
Durante il viaggio verso la Focide si imbatte in un cocchio con Laio e l’araldo Polifonte. Laio sta tornando dalla Pizia per chiedere come debellare la peste a Tebe e come sgomberare quella Sfinge che, accucciatasi sul monte vicino, divora chi non risolve il suo indovinello. Polifonte ordina a Edipo di lasciare il passo al re, ma il giovane non libera il passaggio. Allora Polifonte gli ammazza un cavallo e avanza col carro ferendogli un piede. Edipo, incollerito come un Attila-Abatantuono (A come atrocità, doppia T come terremoto e tragedia…), trapassa con la spada l’araldo. Papà Laio s’incastra nelle redini ed Edipo lo butta a terra, trascinandolo coi cavalli nella polvere fino a farlo schiattare.
Deceduto Laio, a Tebe viene incoronato il fratello di Giocasta, Creonte che, senza spifferamenti della Pizia, capisce come tutte le sf…ortune provengano dalla Sfinge. Questo mostro ha sicuramente portato il bacillo della peste e con i suoi rebus indecifrabili si mastica dei cittadini, tra cui anche il povero figlio di Creonte, Emone.
Nella Sfinge si mescolano caratteri umani e animali. Lei è figlia dell’unione incestuosa tra Echidna, donna serpente, e il suo primo figlio Ortro, cane policefalo e serpentino. Non si può intuire da chi abbia ereditato ali pennute e zampe leonine.
Creonte promette che passerà la sua corona a chi toglierà di mezzo la Sfinge. Il nuovo re avrà poi in sposa la vedova Giocasta.
Edipo, vigoroso e sicuro di sé come un dio dopato (ebbene sì, tracotante), giunge al cospetto della Sfinge, sul monte Ficio.
Il quiz del mostro è questione di vita o di morte: se non viene indovinato, la Sfinge è legittimata a trucidare il mancato solutore; se viene indovinato, tocca alla Sfinge tirare le cuoia.
L’enigma è arcinoto: “Qual è l’essere che cammina ora a 4 gambe, ora a 2, ora a 3 e che più gambe ha più debole è?”
La risposta di Edipo, valida, è “l’uomo”. (Oggidì questa sentenza potrebbe essere discutibile. È vero che i bambini gattonano a 4 zampe/è vero che l’adulto è bipede/è vero che l’anziano si sostiene con la terza gamba del bastone. Ma molti vecchi, ai nostri giorni, spingono il deambulatore, aiutandosi quindi con i 4 appoggi delle rotelle).
La Sfinge viene spinta giù dal monte dal suo avversario vincente (la Sfinge dell’Edipo re di Pasolini maledice: “L’abisso in cui mi spingi è dentro di te”). Il mostro precipita come una rondine gigante caduta in deliquio. E si sfracella.
Con Edipo sul trono il regno vive un periodo di splendore. Il giovane è un uragano di libidine (molto più di una tempesta ormonale). La moglie-madre rimane incinta quattro volte e partorisce due maschi, Eteocle e Polinice, e due femmine, Antigone e Ismene.
Poi la peste riprende a flagellare Tebe e non essendoci più una Sfinge da incolpare, bisogna trovare il corvaccio del malaugurio che induce le tribolazioni. Viene interrogato il vetusto Tiresia, sapiente/veggente/negromante nonché gossipparo. Il saputone svela e documenta a Edipo l’adozione, il parricidio, l’incesto. Giocasta si impicca dopo lo scoop di Tiresia. Edipo si cava gli occhi con una spilla: ha voluto sapere, vederci chiaro; la cecità è la punizione da contrappasso per la sete di chiarezza.
C’è un altro episodio in cui interviene la Pizia. Secondo Platone, il filosofo Cherefonte domanda alla emettitrice di oracoli: “Esiste qualcuno più sapiente di Socrate?”
La Pizia risponde: “Socrate è il più sapiente di tutti”.
Socrate, si sa, è un amabilissimo conversatore, uno che invoglia alla ricerca e alla discussione, uno che contraddice e anche apprezza. Socrate è uno stimolatore come l’ossitocina, è un intrigante che coinvolge ma non vuole affermare, è un aizzatore dei neuroni altrui. Le sue bordate, i suoi aforismi, la sua vaga pedagogia spirituale sono solo effetti scenici per vivacizzare i dialoghi.
Socrate è sapientissimo e la Pizia su questo ha ragione.
Però Socrate ripete come un mantra: “Una sola cosa so, quella di nulla sapere”.
Socrate si professa ignorante: così non può esercitare influenze e non può essere assertivo.
In più Socrate vuol proprio sentirsi ignorante, impreparato ad libitum. Lui non scrive niente, non butta giù le parole che fonderebbero un luminoso mondo filosofico. La definizione verbale di un mondo, come già detto, è assassina di quello stesso mondo. Meglio il palleggio ostinato, la porta aperta al divenire, il domani del pensiero di altri.
Visto poi che, come per Edipo e soci, il sapere può determinare dannazioni infernali, Socrate, schivando il sapere, sfugge a una trappola omicida.
E comunque la Pizia ha doppiamente ragione: Socrate è sapiente perché sa che sarà sempre ignorante.
Prima di lasciare il sito arcaico di Delfi visito il museo annesso. Ci sono statue che primeggerebbero anche al Louvre. Ad esempio, il bronzo dell’Auriga, ragazzo che ha appena vinto una gara di carri trainati da cavalli (dettagli finissimi: capelli arricciati, fascia intorno al capo col disegno del meandro e fiocco posteriore, vene delle mani, labbra carnose, sopracciglia di rame, espressione di autocontrollo e fierezza, postura lentamente ruotata di chi sta guardando la folla acclamante,).
Una stanza è occupata esclusivamente dalla Sfinge dei Nassi, collocata su capitello dorico, meno terrificante del mostro di Edipo. La testa è di donna con zigomi alti e con lunghe trecce, il corpo è di leone magro, le ali sono a ciuffo di gelato pendente a sinistra.
Il sorvegliante della scultura, con tessera al collo, affonda in una poltroncina di pelle. Ha in grembo un cesto di vimini che contiene buste bianche.
-Italiano? – mi chiede il sorvegliante.
Confermo con lieve movimento del mento.
L’uomo mi dà una busta con un piccolo tricolore sull’angolo.
La sera sono di nuovo a Itea. Terminata la cena al ristorante sul lungomare, decido di aprire la busta.
Su un foglio A4 è scritto:
ENIGMA
- Chi o che cosa cammina sulla testa?
- Chi o che cosa cammina sul dorso?
- Chi o che cosa pur con 4 gambe non cammina?
Come Socrate, anch’io sono uno che non sa. Quindi, non potendo sapere le risposte, il primo impulso è quello di stracciare il foglietto.
I quesiti però vengono da una Sfinge. Se non li indovino, magari quella Sfinge dei Nassi mi pianta addosso una scalogna che nell’oroscopo passo direttamente dal mio segno sotto il segno della croce.
Poi sono uno che non resiste ai rebus, agli anagrammi, ai quiz. Se nella Settimana Enigmistica impiego più di quattro minuti a finire le parole crociate del Bartezzaghi, allora mi bevo 10 flaconi di Acutil fosforo.
Per cui, è scontato, mi metto a pensare alle soluzioni degli interrogativi della Sfinge.
-Cameriere, una bottiglia di ouzo a 50 gradi, che ho bisogno di essere su di giri! –
Dopo 30 minuti, seccato tutto il liquore, ho le soluzioni.
Ve le dico?
Ma sì, vi faccio partecipi.
- Chi cammina sulla testa?
Il pidocchio
- Chi cammina sul dorso?
La barca
- Che cosa con 4 gambe non cammina?
Il tavolo
Tiè, saputella Sfinge di Delfi!
Carlo Maria Milazzo