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Brindisi eccellenti con il geniale “Jakot”

N. 87- Marzo 2024

 

 

 

Brindisi eccellenti con il geniale “Jakot”

Dalle due torri di Bologna al “Jakot”, passando per Aquileia e il golfo. Potremmo titolare così un’avventura turistica alla portata di chiunque, premiata da vini imprevisti – e racconteremo perciò dello “Jakot” e di altri frutti della vite -, il tutto a due passi dalla Slovenia, con tramonti sfolgoranti all’orizzonte. Una pattuglia di bolognesi s’è decisa, nel recente febbraio primaverile, a visitare l’ex porto degli Asburgo: Trieste. Tutti sanno, anche chi non c’è mai stato, che è una città meravigliosa, pulita, piena di stili architettonici, con una lunga vicenda storica e con un golfo che non ha nulla da invidiare a quello partenopeo. Prima d’arrivare, è una tappa da non scordare Aquileia, uno dei più importanti siti archeologici, romano e protocristiano, che ci sia in Italia. Molto è stato fatto in questi anni per valorizzare questo luogo ricolmo di storia e di bellezza. L’ideale è poi raggiungere Trieste all’avvicinarsi del tramonto, per godere di una vista spettacolare dalla strada panoramica che porta verso il cuore della città.

Trieste e il “formaggino”

Del capoluogo friulano, delle sue piazze e dei suoi castelli sappiamo molto. Joyce ci passò molto tempo e qui creò pagine importanti della sua narrativa. Non a caso gli han dedicato una celebre statua, su via Roma, non lontano dal “passaggio Joyce”, con la quale concedersi inevitabili autoscatti. E conosciamo in tanti la celebre piazza dell’Unità d’Italia prospiciente il mare. C’è un concentrato, in questa città, di tutte le speranze, le civiltà e le tragedie che hanno intessuto la nostra storia. Alla citata pattuglia bolognese è capitato di chiedere a un giovane cameriere nativo del posto cosa non perdere, a Trieste, di quello che solitamente sfugge al turista mordi e fuggi. E lui ha suggerito: salite su al “formaggino”. Può darsi che a qualche religioso non piaccia questa definizione, dal momento che è riferita all’imponente santuario mariano di Monte Grisa, ad oltre 300 metri di altitudine. Sta di fatto che da lontano la struttura, pensata come una sorta di M per rammentare la Vergine Maria, può effettivamente rammentare un formaggino, per la sua forma triangolare. Dentro molti segni di devozione, cappelle dedicate all’Istria e alla Dalmazia, financo un quadro del beato Carlo IV, l’ultimo degli Asburgo. La memoria storica qui è evidente. Ma soprattutto, assieme alla devozione religiosa, c’è la veduta letteralmente abbagliante di Trieste e del suo golfo. Meglio al calar del sole. Il santuario, voluto nel dopoguerra come ex voto del vescovo di allora, perché Trieste aeva potuto scampare a un tragico destino, è considerato un classico esempio del “brutalismo” – dal francese “bèton brut”, cemento a vista, mediato dall’inglese “brutalism” – una corrente architettonica che punta a mostrare il cemento in quanto tale. In ogni caso da lassù, dal Monte Grisa, i pensieri viaggiano facilmente verso l’infinito piuttosto che verso il cemento.

Dall’infinito e dalla sfolgorante bellezza del golfo, per quella pattuglia bolognese è stato altrettanto facile focalizzare i pensieri su qualcosa di più terreno che non può essere scordato, nel Friuli Venezia Giulia: il vino. C’è l’area del Collio, da queste parti, tra Gorizia e la Slovenia, un territorio famoso per i suoi vigneti. Febbraio non è tuttavia un mese ideale per cercare cantine e degustazioni. L’imprevisto appagante può però sempre accadere. Basta provarci. E così è stato, navigando casualmente in rete, la pattuglia bolognese si è imbattuta in un nome curioso e stimolante: Radikon. I tre padani hanno potuto in tal modo scoprire una cantina dai vini eccellenti, accogliente, nella zona principe della Ribolla, a Oslavia, a due passi dalla Slovenia (dove in realtà, in base ai messaggi di benvenuto del gestore della telefonia, già sareste entrati).

C’è una bella, profonda e solida storia familiare, dentro questo nome, e i tre l’hanno potuta apprendere direttamente da Suzana Radikon, iniziatrice nel 1980 con il marito Stanko, di questa eccellente azienda vitivinicola. E così han potuto gustare Ribolla, Merlot, Pignoli e, per l’appunto, il Jakot. Altro non è – con una felice intuizione proprio dei Radikon, brevettata – che il nome Tokaj rovesciato. Dietro c’è una annosa guerra commerciale sui vini, vinta, anni addietro, nella Comunità Europea, dall’Ungheria, che ha ottenuto la tutela esclusiva del proprio nome Tokaj.

In Friuli s’era dunque ricorso alla ridenominazione “friulano”, per non incorrere nelle ire ungheresi. Ma Jakot è un’alternativa eccellente, carica di suggestione. E di gusto. Farà strada. Assieme agli altri vini Radikon, curati con amore sulle dolci colline di Oslavia, dall’ultima generazione di famiglia, cappeggiata da Sasa, il figlio enologo di Stanko e Suzana.

Gianni Varani

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