Annunciazioni nella Firenze del’400
Firenze, 30 aprile 24. Sono davanti a Santa Maria del Fiore, dalla facciata tricolore: prevalente il bianco del marmo delle Apuane, affratellato al rosso del calcare marnoso e al verde della serpentinite. Incombe la cupola, antropofaga come una balena rosa che voglia inghiottire Pinocchio (lo so che Collodi parla di uno squalo). La cupola: audace impresa architettonica di Filippo Brunelleschi/ottagonale/matrimonio riuscito tra forze centripeta e centrifuga/terminata nel 1436/ “tanto ampia da far ombra a tutta la Toscana” (Leon Battista Alberti).
Vado a sinistra, via de’ Martelli che diventa via Cavour. In piazza San Marco, lato nord-est, affaccia la chiesa omonima con l’annesso cenobio. La parte conventuale, ristrutturata nel 1420 da Michelozzo in forme rinascimentali, è tutta spazio museale.
Scelgo la visita al museo: sul gradino d’entrata è seduta una zingarella, che non ostacola il passaggio. La ragazzina è pallida, come scivolata di faccia sulla via lattea/occhi azzurri di genetica Bessarabia/capelli neri tortuosi. Accedo alla biglietteria e chiedo alla cassiera dalla pettinatura a comodino: -C’è uno sconto? Over 65/Tessera Arci/Socio Ipercoop/Orfani di guerre puniche? – Nostra Signora dei Ticket mi risponde: –Bada che te lo tiro in groppone! (Attento, che se mi fai arrabbiare ti scaravento addosso la prima cosa che mi capita per le mani) –
Il museo conserva la gran parte della produzione artistica del Beato Angelico, che nel convento risiede tra il 1438 e il 1445. L’Angelico affresca ogni singola cella dei monaci, il refettorio, la sala capitolare, i corridoi.
Quale concezione ha dell’arte il Beato (effettivamente beatificato nel 1984 da Giovanni Paolo II)?
Per lui l’arte è una forma di bellezza dettata all’uomo dallo spirito soprasensibile di Dio.
Giorgio Vasari, architetto/pittore/biografo, presenta l’Angelico come un religioso dalla vita esemplare, modesta e disinteressata al punto che i proventi dei suoi lavori vanno tutti ai confratelli. Sull’attività pittorica Vasari scrive: “il frate Giovanni da Fiesole, l’Angelico, mette mano ai pennelli solo dopo aver fatto orazione, non dipinge la figura del Crocefisso senza piangere, non ritocca mai le sue opere ritenendo che come siano state stese la prima volta sia proprio la volontà divina”.
Beato Angelico è dunque un rivelatore delle idee dell’Altissimo, un velinaro del Padre Celeste e, perché no, un grafico pubblicitario di Dio. L’epigrafe sulla tomba, nella chiesa romana di Santa Maria sopra Minerva, ribadisce la sua sudditanza all’Ente Supremo: “Qui giace il venerabile pittore Fra Giovanni dell’Ordine dei Predicatori. Che io sia lodato perché detti tutte le mie ricchezze a te, o Cristo. Per alcuni le opere sopravvivono sulla terra, per altri, come me, in cielo”.
Io transito nel chiostro di Sant’Antonino, quadriportico poggiato su colonne slanciate. I rumori dei clacson e dei tubi di scappamento della piazza zittiscono magicamente. I muri del convento sono di quelli grossi che bevono gli scrosci di pioggia e mangiano i raggi del sole cocente. Sono termoprotettivi e insonorizzanti.
Salgo al primo piano e vengo scodellato nel corridoio nord, di fronte all’Annunciazione che l’Angelico affresca nel 1442.
In una loggetta, la Madonna e l’Arcangelo Gabriele sono posti su leggera diagonale, con Maria in posizione più elevata; una colonna li separa indicando l’appartenenza a mondi differenti (Maria ha carne e ossa, l’Angelo è un concentrato di spirito). Sullo sfondo a sinistra una palizzata divide un giardino da un gruppetto di cipressi made in Tuscany.
L’Angelo ha faccia e corpo di bambino entrato nella fase dello sviluppo. La tunica è rosa antico, finemente orlata e con pieghe che si affastellano. Le ali sono in posa dinamica, come quelle di un uccello che ha appena poggiato le zampette e non ha abbassato gli apparati di volo. Le ali hanno consistenza cartilaginea, dunque rigida. Le piume sono colorate a bande verticali giallo chiaro/ bianco sporco/giallo scuro/verde persiano/ruggine/marrone. Tra le penne emergono frammenti argentei che paiono fatti con un moderno glitter da cosmesi.
L’Arcangelo è un nunzio ma potrebbe anche non parlare: le sue braccia incrociate simulano il gesto di ninnare un neonato, come fanno i giocatori di calcio che dopo un gol fingono di cullare il figlioletto che stanno aspettando. Forse telepaticamente l’Angelo comunica, come nel Vangelo di Luca: “Ecco, Maria, concepirai un figlio e lo darai alla luce. Sarà grande e figlio dell’Altissimo”.
La Madonna ha un’espressione vagamente assente, da adolescente ingabbiata nei suoi pensieri fissi. Anche la fascetta brunastra che le circonda i capelli sembra il vezzo di una minorenne dei nostri giorni. E, come una adolescente, Maria sta appena ingobbita (quante volte un genitore ha detto: “Stai dritta, figlia mia”).
Maria incrocia pure lei le mani, ma le preme sul ventre per sottolineare: “Come è possibile? Non conosco uomo” (Luca 1, 34). L’Angelo potrebbe raccontare: “Sotto gli Egizi, il dio Osiride lancia, dal regno dei morti, un raggio sulla fronte di Iside, che rimane incinta. Iside partorisce il figlio Horus”
“Mio figlio si chiamerà Horus?” domanda Maria.
“No, tuo figlio si chiamerà Gesù, che vuol dire Dio salva–
“Va bene, si faccia per me la volontà dell’Altissimo” – afferma Maria.
In conclusione: due ragazzi, uno sbocciato da poco alla pubertà e una ripiegata su sé stessa, comprendono comunque al volo, con quel talento del cuore che si possiede solo in giovanissima età, il destino speciale a cui sono reclamati.
Quando esco dal convento, la zingarella sul gradino mi allunga una piuma e mi dice: -Tieni, è del piumaggio dell’Angelo-
La penna ha in effetti i colori misti dell’ala dell’Arcangelo. Probabilmente è la piuma di un colombo nocciola, bianchiccio, giallognolo. Però……
Torno innanzi al Duomo. Sul sagrato un uomo tonsurato, dal naso camuso, avvolto in un mantello nero uscito dal prequel di Batman urla: -Il ventre di Maria è più capace di tutto il mondo-
È il sosia di Girolamo Savonarola.
Stavolta vado a destra, via dei Calzaiuoli che sfocia in Piazza della Signoria. Punto alla Galleria degli Uffizi.
La zingarella mi ha preceduto ed è appollaiata sul gradino d’ingresso. Ancora pallida come un airone bianco dopo uno spavento/ancora occhi azzurri da cielo di maggio/ancora capelli neri sinuosi. Alla mia richiesta di sconto, la cassiera, con pettinatura a porcospino viola, risponde: –Se un tu’ stai attento tu ne tocchi! (Se continui ti riempio di botte) –
Vado spedito alla sala 35 in cui è appesa l’Annunciazione di Leonardo da Vinci, databile 1472.
Quale concezione ha dell’arte Leonardo?
Per lui l’arte è il risultato dell’epico sforzo umano alla conquista dell’universale. Dunque, no suggerimenti degli dèi come per l’Angelico, ma impegno titanico dell’uomo che vuole unificare, magari sopra un canovaccio esoterico, scienze matematiche/biologiche/mediche/ingegneristiche/veterinarie/architettoniche/geologiche/del disegno. Scrive Elias Canetti: “Leonardo si prefigge così tante mete che rimane libero da esse. Intraprende tutto perché nulla gli sottragga qualcosa”.
Beato Angelico fa parte di quelli che non sanno e credono. Leonardo è tra quelli che sanno e fanno.
Leonardo è prometeico, erudito all’inverosimile, responsabile della qualità divina delle sue opere. Ed è intelligentemente, costantemente umile: secondo lui “la perfezione della sapienza è cagione della stoltizia”.
L’Annunciazione leonardesca è l’adempimento di una formalità. Arcangelo e Madonna sono ben distanti, ad eludere vistosamente il contatto. L’Angelo è bellino, elegantino, fresco di parrucchiere, educato nel saluto e nell’omaggio floreale. L’Angelo porta nella mano sinistra un giglio, simbolo di purezza e dal profumo avvolgente come un cilicio. Le ali sono di pregiata tappezzeria e paiono l’alettone di una monoposto di formula uno. L’Angelo è umano: pressa col suo peso l’erba ed è titolare dell’ombra ellittica sul prato.
La Madonna è di stampo tedesco: biondo dorato, incarnato rosa-zucchero filato, labbra di chi al massimo può sorridere una volta a settimana, postura correttissima. La Madonna è umana: ha cosce consistenti, che s’appiccicano al vestito blu, e scollatura generosa.
Sopra un leggio, issato su tavolo di marmo, è aperto il libro del profeta Isaia. La Madonna sottolinea con le dita il passo 7, 14: “Il Signore ci darà un segno. Ecco, la Vergine concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emmanuele”. (Emmanuele significa Dio è con noi)
L’Annunciazione dell’Angelo è dunque pleonastica. La Madonna puntualizza: -È già scritto. Succederà. Non servono parole. Io metterò in atto la Scrittura- (La Madonna, col braccio sinistro sospeso, apre la mano come a fare giuramento).
L’Angelo, impeccabile e decorativo come un corazziere, rimugina che lui il suo dovere l’ha fatto.
Lo sfondo del quadro include un mistero. A chiudere la tela sono un fiume e una montagna sfumati dalla nebbia ma soprattutto un allineamento di alberi. Le piante paiono giocatori di calcio accostati l’un l’altro durante l’esecuzione dell’inno nazionale. Si schierano querce, cipressi e un’araucaria. Leonardo coltiva di certo anche le scienze botaniche, ma l’araucaria è albero proveniente dal Sudamerica, che nel 1472 non è ancora scoperto….
All’uscita dagli Uffizi la zingarella mi regala un giglio e mi dice: -Il fiore dell’Angelo-
Ok, il giglio è niveo, carnoso e dal gambo lungo come quello di Leonardo, ma la ragazza l’avrà rubato al fioraio all’angolo. Una zingara è un trucco, canta Francesco De Gregori. Però….
Carlo Maria Milazzo