Alla ricerca del Sacro Graal (Omnis torna il 15 settembre)
“Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede ai suoi discepoli e disse: “Prendete e bevetene tutti, questo è il mio sangue, per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati.” (Matteo 26, 27-28)
Custodito all’interno della Cattedrale di Valencia, in una meravigliosa cappella a pianta quadrata con pareti di pietra lavorata, il Santo Cáliz rappresenta oggi una delle più famose reliquie cristiane: il Santo Graal, la coppa in cui Gesù Cristo, secondo la leggenda, bevve con i suoi discepoli durante l’Ultima Cena, istituendo il sacramento dell’Eucarestia. Per questo è considerata una reliquia unica, “la reliquia”, sulla quale infinite storie e leggende sono state raccontate nei secoli, ispirando opere d’arte, poemi e opere liriche come il “Parsifal” di Wagner, ma anche libri e film. I due più recenti sono noti a tutti: “Indiana Jones e l’ultima crociata”, film del 1989 diretto da Steven Spielberg e “Il Codice da Vinci”, film del 2006, diretto da Ron Howard e tratto dall’omonimo famosissimo romanzo di Dan Brown del 2003.
Le origini della leggenda del Santo Graal ci riportano ai racconti del ciclo di Re Artù, nei quali la tradizione cristiana si fonde con antichi miti celtici. È infatti solo nel Medioevo che il Graal viene citato per la prima volta, all’inizio del XII secolo, dallo scrittore francese Chretien de Troyes nel suo racconto “Perceval”, nel quale un giovane cavaliere si reca al castello del Re Pescatore, il padre di Re Artù, dove assiste ad una strana processione nella quale viene portato un oggetto sacro chiamato “Graal”. Nella processione egli vede anche un giovane che trasporta una lancia dalla punta insanguinata, forse un riferimento alla lancia che ferì il costato di Gesù sulla croce e probabilmente da questo racconto prende spunto il collegamento tra questa ferita e il Graal, che diviene così anche la coppa in cui Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Gesù morente. Questa storia affascinò da subito i lettori e divenne la fonte da cui attinsero numerosi altri autori che ne hanno sviluppato e arricchito la trama, fino ancora ai giorni nostri.
IlSanto Cáliz di Valencia è composto da una vera e propria coppa alta 7 centimetri in agata corallina proveniente da Antiochia e datata I secolo d.C. La base, che pare una coppa rovesciata, è fatta dello stesso materiale ed è rivestita da una placcatura d’oro e da 27 pietre preziose. Probabilmente aggiunta in un secondo momento, la parte inferiore è di derivazione egizia e reca due incisioni, una in arabo e l’altra in ebraico, di non chiara interpretazione.
Ma come sarebbe arrivato a Valencia il Santo Graal? Secondo la tradizione aragonese, il Santo Graal venne portato da Pietro prima ad Antiochia e poi da qui a Roma, dove fu utilizzato da numerosi papi per la celebrazione dell’Eucarestia, fino a Sisto II che, prima di venire ucciso a causa delle persecuzioni cristiane, lo avrebbe consegnato al diacono Lorenzo (poi San Lorenzo) che nel 258 d. C. riuscì a farlo giungere in Spagna, a Huesca, sua città natale, sui Pirenei Aragonesi. Durante i cinque secoli di dominazione musulmana, il Santo Calice venne nascosto e protetto in diverse località dei Pirenei, di monastero in monastero, fino ad arrivare in uno dei monasteri più importanti, quello di San Juan della Peña, nella cui biblioteca si trova tutt’oggi un antico manoscritto, che cita la presenza in quel luogo di un prezioso calice fatto di pietra. La reliquia poi fu donata dai monaci al re di Aragona Martino I ed esiste la documentazione di questa donazione, datata 26 settembre 1399. Il re, che amava collezionare reliquie, lo portò a Saragozza, nel palazzo reale dell’Alajaferia, dove rimase vent’anni. Per un breve tempo fu trasferito a Barcellona, ma alla morte del re (secondo un documento dell’Archivio del Regno di Valencia) la sua vedova ne fece dono alla città di Valencia. Nel 1437 il re Alfonso il Magnanimo lo donò alla cattedrale e da allora il Santo Graal non lasciò più la sua nuova sede, eccetto che per due periodi: tra il 1809 e il 1812, durante l’occupazione da parte dell’esercito napoleonico, quando fu portato a Ibiza; e tra il 1936 e il 1939, durante la Guerra Civile Spagnola, quando pare sia stato nascosto dalla gente di Valencia passandolo di casa in casa.
Durante la seconda guerra mondiale, Hitler era ossessionato dall’idea del Santo Graal, per il potere e prestigio che potevano derivarne. Il nazismo cosiddetto “mistico” ipotizzava un legame di sangue tra Gesù e il popolo tedesco e reputava che il possesso del Santo Graal sarebbe stato in grado di conferire ai tedeschi poteri soprannaturali e la certezza della vittoria. I nazisti ritenevano che il Santo Graal fosse nascosto in Spagna e che gli indizi sul luogo preciso si potessero trovare in una delle opere wagneriane più amate da Hitler, il “Parsifal”. Wagner si ispirò per quest’opera al poema epico tedesco “Parzival” di Wolfram von Eschenbach, del XIII secolo. Secondo questo racconto il Graal era custodito in un castello chiamato Mont Salvage, modificato da Wagner in Montsalvat. Il capo delle SS Heinrich Himmler nel 1940 visitò il monastero benedettino di Santa Maria di Montserrat, in Catalogna, alla ricerca del Graal, credendo potesse essere il Montsalvat dell’opera di Wagner, ma senza risultato: i nazisti non trovarono mai il Santo Graal.
Secondo lo studio dell’archeologo Antonio Beltrán, del 1984, dal titolo “Il Santo Calice della Cattedrale di Valencia”, basato su fonti archeologiche e documentali, la reliquia venerata dai fedeli cristiani nella Cattedrale di Valencia potrebbe davvero essere la coppa in cui bevve Gesù nella sua ultima cena e, allo stesso modo, diversi altri studiosi sono arrivati alla conclusione che, anche se non è possibile stabilire con certezza la veridicità dell’oggetto, non si può neppure escluderla.
Oggi meta di pellegrini e turisti, il Santo Cáliz fa mostra di sé dalla sua teca trasparente e ci ammonisce che, al di là degli studi e dei documenti, la ricerca del Santo Graal è anzitutto un viaggio alla ricerca di se stessi e della propria fede.
Patrizia Masoni