Superlega: non per soldi… ma per denaro

Panem et circenses, pane e divertimento. La grandezza degli antichi romani si vede anche dai detti che ci hanno lasciato e che sintetizzano desideri e politiche sociali in sole due parole. Due parole che non potevano non venire alla mente nel momento in cui le grandi squadre europee di calcio hanno provato a costituire la cosiddetta Superlega, un campionato di società “elette” che avrebbe dovuto portare nelle casse delle suddette società maggiori incassi e quindi più soldi.

In piena vicenda Covid-19, al culmine della discussione sul Recovery Fund, i titoli di testa dei giornali, quelli di apertura di radio e telegiornali e perfino l’argomento principe nei bar imbrigliati dagli asporti, la “Superlega” si è presa tutto. Neanche i capi di Stato si sono sottratti al dibattito panem et circenses e, almeno per un giorno, messe da parte le questioni sanitarie, economiche e di lavoro, hanno detto la loro.

Mentre la pandemia ha rimesso in discussione i princìpi della globalizzazione (nessuno oggi crede che sia cosa intelligente far produrre all’estero mascherine, camici e guanti per il settore sanitario, per non parlare dei vaccini), qualcuno pensa a globalizzare il calcio. E a tutti (a parte i promotori) sembra un’eresia da combatter a spada tratta più dello stesso virus.

Senza entrare nel merito della questione, quello che lascia quanto meno perplessi sono le motivazioni addotte contro la Superlega: “la passione è il motore del calcio, così la uccidiamo”, “lo sport non si fa per soldi”, “un attentato al calcio, pensano solo ai loro interessi”.

Ma davvero c’è qualcuno che pensa che oggi il calcio non si faccia per soldi? E i megavergognosi stipendi dei calciatori, che rischiano di mandare in bancarotta i club, che significato hanno? Davvero i tanti investitori stranieri, cinesi in testa, sarebbero venuti in Italia e negli altri Paesi europei per la passione verso le nostre squadre?

Beh, magari non per soldi ma … per denaro.