Santa Clara, vieni bruciando la brezza, comandante Che Guevara

In una scena de La via lattea di Luis Buñuel, il Cristo annuncia a sua madre che vuole farsi la barba. Alla Madonna l’idea non piace e consiglia: “Stai meglio così”. Lui le dà retta.
Lo sfizio di Gesù lo umanizza assai: andiamo, un Messia con un capriccio estetico! Però il paradosso di Buñuel rafforza l’icona del Dio barbuto e vigile, del Dio che emana forza e giustizia dalla barba, del Dio che incarna col volto irsuto il suo rifiuto incollerito di Gomorra/dei Farisei/dei sepolcri imbiancati/di chi recita da pecora e dentro è lupo rapace.
Nel secolo scorso la barba torna a essere marchio di anticonformismo e di rivolta. Ernesto Che Guevara la consacra a segno distintivo del ribelle-puro-di-cuore. A Cuba portano la barba i rivoluzionari della prima ora (gli 80 imbarcati sulla Granma) e quelli che si uniscono sulla Sierra Maestra (i “barbudos” che sfileranno per l’Avana a victoria ottenuta). Concepire il Che imberbe è pensare a un cinghiale diventato, per alopecia, Peppa Pig. Immaginare Fidel Castro rasato è credere al brasato vegetariano. Pensare la guancia di Camilo Cienfuegos disboscata da un Gillette trilama è fantascienza da Urania.
Purtroppo per il Che, di sbarbatelli ce ne sono nelle sue truppe. Tra le alture cubane arruola tanti ragazzi tra i 15 e i 18 anni, annotando: “i giovani sono più matti, rischiano di più, non pensano molto”. Pazienza se sulle mandibole hanno quattro peletti deboli.

Il Che e il Cristo offrono altre attinenze oltre il tripudio tricotico. Ad esempio, la vocazione al martirio. Come il Cristo digiuna fino a togliere alle cellule il concetto di metabolismo, così Guevara e i suoi soffrono fame, sete, zanzare aggressive, piogge tropicali e terreni fangosi. Il Che, poi, non si lava mai, si nutre con razioni insufficienti, lasciando ai compagni qualche caloria in più. Appunta che i segreti della resistenza sono “poco bagaglio, gambe forti, stomaco da fachiro”.
Al martirio il Che ride in faccia. Nel mezzo di fuochi incrociati avanza diritto e solo, Achille invulnerabile, tra le pallottole. Spara col fucile parallelo al suolo: Rambo al confronto è una Giovane Marmotta.
Come il Cristo fa miracoli, anche il Che potrebbe farli in quanto sa fare tutto. Laureato in medicina, infermiere sulle navi da carico, analista di suoli agricoli, allergologo per curarsi l’asma, golfista, giocatore di rugby, allenatore di una squadra di calcio (in Guatemala), vendemmiatore, chimico e inventore di un insetticida. E poi fotoreporter, scacchista, padre di 5 figli, pilota d’aerei, scrittore (così e così), aforista (“chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso”). E poi, a governo castrista insediato, dirigente dell’Istituto Nazionale per la Riforma Agraria, presidente della Banca Nazionale di Cuba, Ministro per l’Industria. E praticamente Ministro degli Esteri, con viaggi (poco) diplomatici in Egitto, Siria, India, Birmania, Giappone, Indonesia, Singapore, Ceylon, Pakistan, Jugoslavia, Sudan.
La foto della salma del Che, scattata da Freddy Aborta a Vallegrande (Bolivia), ha una somiglianza sconvolgente con il Cristo morto di Holbein il Giovane, quadro che Dostoevskij osserva a Basilea nel 1867 (100 anni prima dell’esecuzione del Che). Lo scrittore russo vede nel volto dipinto il sacrificio di un uomo che ha un potere invisibile, divino.
Sempre a Vallegrande, il collegamento Guevara-Cristo è fatto da una delle infermiere chiamate a pulire il cadavere del Che prima dell’ostensione. Dice la donna: “Quando ci portano il corpo di Guevara, alle 10 del mattino, nessuno sa chi sia. Cerchiamo di trattarlo come qualsiasi altro morto, ma i medici e noi infermiere siamo impressionati perché il corpo esanime sembra Gesù Cristo, coi capelli lunghi, la barba incolta, gli occhi spalancati che ci fissano e, se ci spostiamo, ci seguono”.
Pure la fama del Che e dei suoi combattenti, all’arrivo a Santa Clara, ricorda quella del Cristo e degli apostoli all’entrata a Gerusalemme. I localichiamano i ribelli Mau Mau e dicono che sono cavallereschi, magnanimi, che liberano i prigionieri dopo aver spiegato loro i motivi della Revoluciòn, che curano i feriti propri e altrui, che non abbandonano mai un compagno negli scontri, che avvertono i paesani degli attacchi (evitando inutili spargimenti di sangue), che vendicano le offese al popolo, che non vengono mai sconfitti.
Io capito a Santa Clara nel marzo di dieci anni fa.
La città è al centro di Cuba, là dove l’isola si stringe come il nodo di uno straccio strizzato. Su un crinale collinoso, Santa Clara è equidistante da Cienfuegos, 60 km a sud sul mar caraibico (blu-specchio di temporale), e da Caibarién, 60 km a nord sul mare atlantico (verde come una foresta annegata). L’Avana è 280 km a ovest.
Visito diligentemente El tren blindado, nella periferia est. Su un binario sono issati alcuni dei 22 vagoni del treno che il 29 dicembre 1958 porta munizioni per l’esercito del dittatore Fulgencio Batista. Quel giorno le squadre di Ernesto Guevara hanno già affrontato nei territori circostanti le milizie regolari, con imboscate e attacchi mordi-e-fuggi. I militari sono supportati da due aerei bombardieri e da una coppia di carri armati, poco utili contro rivoluzionari che si spostano rapidi.
Il treno avanza lento, saturo del suo tesoro di artiglieria/mortai/spararazzi. Sottoposto all’improvviso alle mitragliatrici dei rivoltosi e al lancio di granate, il capotreno decide una retromarcia di qualche km.
Intanto, il Che tuttofare ha divelto con un bulldozer 20 metri dei binari a ritroso. Nella breccia deraglia l’ultimo vagone e poi, con effetto domino, gli altri. Sul convoglio ribaltato i guerriglieri scagliano una pioggia di molotov (bottiglie verdi di Coca-cola/opache di birra Hatuey/trasparenti di lemonsoda Cawy e lattine di pomodoro Libby’s/di pere Bartlet/di zuppe Campbell).
Tra fumi e fuoco i soldati della scorta abbandonano le ritorte lamiere del treno. Vengono fatti prigionieri.
Il bottino sottratto ai carri rovesciati consta di 6 bazooka/5 mortai da 60 mm/4 mitragliatrici calibro 30/un cannoncino da 20 mm/38 mitragliatrici leggere Browning/granate/600 fucili automatici/una mitragliatrice calibro 50/un milione di proiettili: la nuova santabarbara di Santa Clara.
Visito rigorosamente anche Plaza de la Revoluciòn, alla periferia ovest, piastrelle poggiate su una spianata deserta. Il sole, baciando i belli, potrebbe ustionarli. Giganteggia la statua del Che, insolitamente corrucciato e sofferente. Il monumento viene eretto nel 1988 nell’anniversario della battaglia di Santa Clara.

Che Guevara con Aleida e i figli Celia, Aleida, Camilo e Ernesto. 1965 ©Centro de Estudios Che Guevara
Alle spalle un edificio largo, basso, rettangolare esibisce le lapidi che testimoniano le sepolture di Ernesto e di 37 suoi compagni (le spoglie del Che sono riportate a Cuba dalla Bolivia nel 1997). All’interno tante foto di Guevara, col berretto da tranviere, col basco stellato, con una quantità illegale di capelli, con la mimetica variata solo dal numero di tasche, con gli anfibi eterni, col sigaro che appendendosi al labbro lo costringe a un’avvisaglia di sorriso. Celebri le fotografie scattate da Alberto Korda, con una Leica e una pellicola Kodak che ospita già fotogrammi di Sartre, Simone de Beauvoir, Fidel Castro.
Quando il cielo inizia a imbellettarsi da tramonto mi siedo a un tavolino fuori da un bar, all’angolo di Parque Vidal. Il Parque è la piazzetta centrale di Santa Clara, contornata da edifici coloniali e da un teatro neoclassico. Nel mezzo, palme toniche ombreggiano una Glorieta, piccolo padiglione per musicisti.
Mi faccio portare un bicchiere di rum Legendario, vero elisir di Cuba. Color bronzo lucidato/delicato ma profondo/34 gradi/profumo di caramello/una parentela col brandy e con la quercia.
Mi accendo un sigaro comprato dalla vicina Fabbrica Constantino Perez. Mi sembra di aspirare un cespuglio condito con cannella e salsedine. La barba? Ce l’ho. Mi potrebbero scambiare per Hemingway, ma Ernest è solo un mio collega pavone e depresso.
Osservo il passeggio, in maggioranza donne giovani, pelle terracotta, abbondanza di trecce, natiche che confinano con le scapole. Poi bambini mulatti saltellanti.
Gli uomini sono raggruppati davanti alla Glorieta e sfornano salsa cubana da chitarre/basso/tromba/sax/maracas. Vari gli strumenti a percussione: congas/bongos/una pentola d’acciaio/il guiro dalla superficie rigata/il tamburello/la campana metallica/i claves (bastoncini che si battono tra loro). Giunge ancheggiando la reincarnazione di Celia Cruz, Reina de la Salsa, negrita, capelli all’insù come un mazzo di fiori, naso sovradimensionato. Gonna ariosa, rosso sgargiante. Canta La vida es un carnival (“La vita non è disegual-ingiusta, la vita è hermosura-bellezza”). Qualcuno balla.
Due tavolini del mio bar sono occupati da italiani over 60 a caccia di sesso e finto affetto. Un uomo dai pochi capelli troppo neri condivide mojito con una ragazzetta nocciola/fresca come l’altra parte del cuscino/dal sorriso che tiene in cattività. Un donnone-Mara Venier, bionda come il sole dopo shampoo alla camomilla, beve birra insieme al toy-boy dalla pelle biscottata/un condominio di muscoli/la dentatura smagliante
Continuo la mia recita da Hemingway e, taccuino alla mano, mi chiedo perché non ho mai indossato una maglietta col Che, vestita a lungo da tanti miei coetanei. E poi perché non ho mai comprato un poster del Comandante? E poi perché non ho mai fatto citazioni dai suoi diari eccitanti/istigatori/predicatori?
Aquì està la respuesta.
Il Che sentenzia agli studenti di Medicina di L’Avana che OGNI SINGOLO UOMO HA UN VALORE ESAGERATAMENTE SUPERIORE ALLA RICCHEZZE DELL’UOMO PIU’ RICCO.
Ok. Ma allora, se tutti gli uomini hanno un valore incommensurabile perché ucciderne?
A metà febbraio del 1957 il Che ammazza il primo uomo. È un soldato nascosto tra le foglie, ma il Che lo vede, gli salta innanzi e gli spara al petto. Nei suoi appunti Guevara scrive soltanto: “cuore spaccato, rigor mortis subitaneo”.
Qualche giorno dopo fucila personalmente un infiltrato nelle sue guarnigioni, un informatore del nemico.
E poi la lista degli uccisi si fa lunga e prolungata nel tempo.
Il guerrigliero professionista (questo è in primis Che Guevara) non può non trucidare.
UN UOMO CHE UCCIDE DIVENTA ISTANTANEAMENTE UNA BESTIA.
Raskol’nikov di Dostoevskij si giustifica per l’omicidio della usuraia Alèna: “Dopotutto ho ucciso solo un pidocchio, un inutile, ripugnante, nocivo pidocchio”.
Gli ribatte Sonja: “Una creatura umana non può essere un pidocchio”.
A me, chi uccide, non può proporre un ideale, una morale, una lotta comune, una utopia.
Io non sono disposto a farmi bestia.
Ok, Hasta la Victoria Siempre, Ma, Quinto: non ammazzare.
Questo asterisco * sarebbe dovuto andare accanto al titolo del docu-racconto. “Vieni bruciando la brezza, Che Guevara” è frase enucleata dal brano Hasta Siempre, Comandante, scritto da Carlos Puebla al commiato definitivo del Che da Cuba.
Carlo Maria Milazzo