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Parigi, l’eterno insieme

N. 81- Settembre 2023

 

 

 

Parigi, l’eterno insieme

Père-Lachaise

Da Place de la Bastille, ignorando il nudo alato in cima alla Colonne de Juillet (che del resto ignora chi lo guarda dal basso), si prenda a destra Rue de la Roquette. Dopo 2 km in dolce ascesa, ombreggiati da tendoni di bar e ristoranti, la strada si spegne davanti all’entrata del PèreLachaise. Un emiciclo, tra due pilastri fregiati di torce e clessidre, introduce al cimitero dell’est di Parigi. Come è arcinoto, il camposanto raccoglie le spoglie di artisti di ogni epoca. All’ingresso il custode munisce di cartina dettagliata per raggiungere tra le molteplici tombe quelle del pittore, dello scrittore, del musicista che ha suscitato nel visitatore stupore, estasi, paura, sensazione di fratellanza/sorellanza, sospiri di profonda ammirazione, percezione di unicità, desiderio di ossequio….

Il nome della zona cimiteriale si deve al gesuita François d’Aix de La Chaise, detto Père La Chaise, confessore dell’ipercrinuto Re Sole. Il Père rileva nel 1670 una casa di campagna e ne fa un luogo di convalescenza o di breve riposo. Lo stesso Luigi XIV vi trascorre di tanto in tanto qualche giorno, per staccare la spina dagli impegni amministrativi e guerreschi. Il Conte de La Chaise, fratello del Père, allestisce bellissimi giardini, in cui organizza feste.

Nel 1762 i gesuiti indebitati devono cedere la proprietà: la casa e la verde oasi circostante vanno progressivamente in rovina. La costruzione del cimitero avviene nel 1803, dopo che il console Napoleone Bonaparte legifera che le tumulazioni non possono effettuarsi in ambienti cittadini: le colline di Montmartre, di Montparnasse, del Père Lachaise sono i luoghi prescelti per i nuovi camposanti.

Nel 1804 il Père-Lachaise conta solo 13 tombe. Nel 1817 ce ne sono 870 e allora il prefetto della Senna s’inventa la trovata pubblicitaria della traslazione dei resti di personaggi famosi come Molière e La Fontaine. Viene trasferita anche la bara di Cyrano de Bergerac, con quel bugno sulla cassa in cui si alloca la penisola del naso. Poi si traslocano gli scheletri intrecciati di Abelardo ed Eloisa (in una delle ultime lettere, Abelardo chiede a Eloisa di farsi seppellire accanto a lui, nell’eremo di Saint-Marcel, da lui donato alle monache presso cui la donna sta dimorando. Vent’anni dopo la morte di Abelardo, nel 1164, la salma di Eloisa viene sepolta nella tomba indicata: al momento dell’inumazione lo scheletro di Abelardo abbraccia, per l’eterno insieme, il corpo di Eloisa).

La “promozione dei morti celebri” funziona: nel 1830 le tombe sono 33000 e il numero aumenta costantemente, costringendo a cinque ingrandimenti del Lachaise. Oggi il cimitero è ampio 44 ettari e include 70000 tombe. Caracollano tra le sepolture 100 gatti (che dividendosi equamente il territorio dispongono quindi di 700 tombe a testa). Tra i 5300 alberi chiacchierano scriccioli, cince nere, cince crestate, verzellini e pigliamosche.

^^^ La tomba comune di Amedeo Modigliani e di Jeanne Hébuterne si trova nella parte moderna del Père-Lachaise. È un sobrio cofanetto allungato in pietra grigia, ravvivato però dagli omaggi che gli ammiratori portano ogni giorno: rose bianche, dalie rosse, fogli disegnati fermati con sassi, bandierine col tricolore italico, addirittura portamatite coi pennarelli che usano i bambini. Due iscrizioni dorate in lingua italiana seguono i nomi e le date di nascita e morte dei tumulati. Per Amedeo è scritto: “Morte lo colse quando giunse alla gloria” (e qui scatta la correlazione con una frase di Balzac, sepolto a breve distanza: “La gloria è il sole dei morti”). Per Jeanne l’epitaffio recita: “Compagna devota fino all’estremo sacrifizio”.

Amedeo, nato a Livorno il 12 luglio 1884 e morto a Parigi il 24 gennaio 1920, non ancora trentaseienne. Jeanne, nata a Meaux, 50 km dalla capitale, il 6 aprile 1898 e morta a Parigi il 26 gennaio 1920, poco oltre i vent’anni.

Amedeo proviene da una famiglia ebrea, socialista, poliglotta. I genitori stanno in Toscana ma hanno il mito di Parigi quale città del sapere e della libertà. Amedeo cresce respirando le raffinatezze di una cultura aristocratica, la voglia di internazionalismo, gli ideali di giustizia sociale.

Jeanne viene da una famiglia convertitasi al cattolicesimo dall’ebraismo. I genitori sono inflessibili su commistioni tra cristiani e israeliti.

Amedeo Modigliani ha generalità che suonano continue e armoniche. Le lettere della parola “melodia” vi compaiono addirittura due volte, ad eccezione della consonante “l” che ha una sola presenza.

Jeanne Hébuterne ha un nome che è un soffio musicale, ma il cognome è ruvido quanto un comando militare.

Amedeo passa l’adolescenza a leggere tutta la Divina Commedia e tutto il Canzoniere, l’opera filosofica di Spinoza, le poesie di Shelley/Baudelaire/Rimbaud/Verlaine/Leopardi, le Odi barbare di Carducci, i drammi di Ibsen, le intuizioni ardite di Nietzsche, Bakunin con la sua proposta ossimorica dell’anarchia responsabile. Il giovanotto memorizza migliaia di versi, citazioni colte, concetti profondi, parole alate, sentenze solenni, paradossi brillanti e sedimenta un repertorio enciclopedico con cui sbalordire chiunque lo contatterà negli anni a venire. Si favoleggia che nel corso della sua esistenza Amedeo sia sempre stato visto con un libro in mano o infilato nella tasca della giacca.

Jeanne, avrà mai avuto un’adolescenza? Avrà mai trovato un angolo tutto suo dove sposare una fantasia a un sospiro? E per i libri, avrà mai avuto qualcosa di diverso da una Bibbia già sottolineata?

La cartella clinica di Amedeo è un testo di patologia generale: pleurite a 12 anni, tifo con delirio febbrile a 14, polmonite a 15, tubercolosi a 16. Accanto al letto del ragazzo c’è sempre la mamma di origine francese, che chiama il figlio Dedo e magari qualche volta Dedò. La diagnosi che conclude il fascicolo ospedaliero di Amedeo è quella di morte per meningite, probabilmente riconducibile al bacillo della TBC.

Il corpo di Jeanne è pallido ma irrorato da linfa potente. Jeanne è bianca come un giglio, consistente come il petalo del giglio, flessuosa come lo stelo del giglio (vedi “Ritratto di Jeanne davanti alla porta”). Il solo referto medico di Jeanne recita: “traumi letali da caduta imputabile a suicidio” ^^^

Montparnasse

Per arrivare a questo quartiere del XIV arrondissement basta puntare la torre nerastra di 210 metri, costruita nel 1973. Una volta sotto la torre si può scegliere: A) salire alla terrazza panoramica del 159° piano e consumare, in spregio alla bohème, ostriche e champagne; B) restare dabbasso e maledire i ricchi o quelli che si fingono benestanti.

Se si sta giù, è consigliabile sedersi in uno dei tanti bar-osteria bretoni che circondano la torre. (I bretoni, che immigrano fin dal 1930 in cerca di lavoro, giungono alla Gare Montparnasse che collega all’ovest e all’Atlantico. Rimangono sempre nel quartiere, diffidenti verso il centro caotico di Parigi e soprattutto per essere vicini alla stazione ferroviaria, da cui ripartire il prima possibile verso i paesi di provenienza). Si possono ordinare: A) crêpes dolci servite con crema al cioccolato, panna, frutta candita, frutta secca o semplicemente con zucchero e miele; la hors catégorie è la crêpe Suzette, farcita di marmellata d’arancia e infiammata con liquore Curaçao; B) crêpes salate con funghi e patate, con omelette al camembert, con anatra e mele, con crème fraîche e salmone, con foie gras e marmellata di cipolle, con capesante di Saint-Brieuc; la più popolare è la complète, con gruviera grattugiato/uovo bollito/prosciutto cotto.

Il precetto bretone vuole che allo spuntino si accompagni un bicchierone di sidro dorato.

Il boulevard du Montparnasse è il viale che attraversa il quartiere, coi palazzi incappucciati di ardesia e i faggi che in autunno formano una processione arancio. Sullo sfondo la Tour Eiffel sembra un gendarme inflessibile. Al n° 105 voilà il bistrot La Rotonde, inaugurato nel 1911 e ritrovo degli artisti di zona: Apollinaire, Picasso, Max Jacob, Modigliani. Al n° 108 voilà il Café du Dôme, in cui si siedono, in tempi differenti: Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, Gerda Taro, Man Ray e Kiki di Montparnasse, la donna con la schiena-violino/Eva Kotchever (fondatrice del primo club lesbico di New York)/Paul Gauguin, Tsuguharu Foujita, Max Ernst/Ezra Pound, Anais Nin, Henry Miller (Picasso e Modigliani frequentano anche questo locale). Scrive Ernest Hemingway: “Quando muore il giorno, al Dôme ci sono modelle e pittori che hanno lavorato finché la luce non se n’è andata, e ci sono scrittori che bene o male hanno chiuso una giornata di lavoro, e ci sono bevitori, e altri personaggi a scopo puramente decorativo”.

^^^Modigliani arriva a Parigi nel 1906 e scambia subito opinioni sull’arte con Constantin Brancusi, Maurice Utrillo, Chaim Soutine. Amedeo è prepotentemente sicuro del proprio talento, come si desume dalla dedica appostasul ritratto della modella Lunia Czechowska: “La vita è un dono dei pochi ai molti, di coloro che sanno e che hanno a coloro che non sanno e che non hanno”. Amedeo è conscio di sapere, di avere e di poter infondere, come un Dio, la luce vitale in chi voglia contemplare le sue opere.

A Montparnasse, Amedeo, nonostante l’arroganza da fenomeno del pennello, si iscrive nel 1907 all’Accademia Colarossi, al n° 10 della rue de la Grande-Chaumière. Frequenta soprattutto i corsi di nudo.

Jeanne Hébuterne ritiene di essere portata per il disegno, per i colori, per le tele. Vuole apprendere tecnica e storia dell’arte: nel 1917 segue le lezioni all’Accademia Colarossi.

E proprio subito fuori dall’Accademia, nell’aprile del 1917, avviene l’incontro tra Amedeo e Jeanne.

Dove si trova Amedeo in quel momento? Probabilmente nel Cafè di fronte all’Accademia, seduto a un tavolino protetto da veranda trasparente.

Jeanne sta uscendo dall’Accademia.

Che faccia ha Amedeo in quel momento? Ha forse l’aspetto selvatico, avido e ripugnante che anni prima gli ha visto addosso la scrittrice inglese Beatrice Hastings? Oppure è ben rasato, elegante e soavemente malinconico? Lascia forse trasparire un orgoglio insopportabile, l’ingratitudine torva, la freddezza glaciale che gli ha riscontrato l’eclettico Max Jacob? Oppure ha gli occhi schietti, abitati da una purezza cristallina?

Jeanne stringe con dita irrigidite il manico di una cartella. I lunghi capelli castani con riflessi rossi sono parzialmente nascosti da un cappello con enorme tesa spiovente (vedi “Ritratto di Jeanne con cappello”).

Amedeo ha capelli neri che si dividono con una riga approssimativa sulla sinistra del capo. Una ruga verticale da pensatore incide la metà della fronte. Le sopracciglia sono grosse e con leggera curvatura da diavolo. Le ciglia lunghe paiono truccate. Gli occhi sono scuri. Il naso è carnoso e dilatato come quello di un torello. Le labbra ospitano una sigaretta spenta. Il suo tavolino alloggia un bicchiere di cognac, un posacenere stipato di cicche, il libro preferito: “I canti di Maldoror” di Lautréamont.

Jeanne guarda Amedeo e in una frazione di secondo comprende che quell’uomo è il Tutto, capace delle bassezze più bieche così come di una vigorosa umanità. Tutta la scala emozionale, dalla perversione alla sensibilità, è sicuramente di quell’uomo. Lo Stronzo e l’Angelo sono entrambi titolari della sua anima.

Amedeo guarda gli occhi azzurrissimi di Jeanne, poi il suo collo che sembra alloggiare la mutazione genetica di tre vertebre cervicali in più. La ragazza è bella, sembra dolce. Amedeo sente il cuore contrarsi vivacemente e poi rilassarsi per pause più lunghe.

Amedeo si alza, con la mano prende il gomito di Jeanne e i due s’incamminano per la rue. Piove e sul borsalino che Amedeo s’è messo in testa le gocce ballano una tarantella. Sul cappello di Jeanne le gocce si appendono al bordo della tesa come tante minuscole mammelle.

Amedeo e Jeanne vanno a vivere in un appartamento vicinissimo al punto del loro incontro, al n° 8 di rue de la Grande-Chaumière. I soldi sono pochi e il freddo dell’inverno mangia le idee e le mani. Il 3 dicembre viene inaugurata la prima personale di Amedeo, che però è chiusa dalla polizia a vernissage appena finito: in vetrina ci sono troppi nudi e per di più, come afferma il verbale dei gendarmi, i corpi mostrano evidenti peli pubici.

Nella primavera del 1918, per il pericolo di invasione dell’esercito tedesco, i due si trasferiscono in Provenza. Amedeo, pur con la salute malferma, dipinge freneticamente. Jeanne gli fa da modella e viene ritratta con il maglione rosso e i capelli raccolti a mo’ di favo rovesciato, poi frontalmente col collo che tende a quello di un cigno e l’orecchia destra a bucare il fascio dei capelli, poi con maglioni larghi che assecondano le forme ampliate della gravidanza. Amedeo ritrae anche la povera gente del sud della Francia e lo fa con tratti delicati e colori leggeri: tra i soggetti svettano un contadinello, una zingara col figlio in braccio, un baffuto compagno di bevute. Il 29 novembre, a Nizza, Jeanne mette al mondo la bambina sua e di Amedeo. Alla neonata viene replicato il nome di Jeanne. All’inizio del 1919 alcune tele di Amedeo sono esposte a Londra e i collezionisti inglesi cominciano a comprare i dipinti^^^

Rue Campagne Première

Al n° 31 di questa via di Montparnasse sorge L’Atelier 17, palazzo di inizio 900 con grandi vetrate e decorazioni in maiolica. Dal 1927 l’edificio diventa laboratorio per artisti che vogliano sperimentare nuove tecniche come l’acquatinta su rame o zinco, la stampa offset a colori, l’incisione al tratto, la mezzatinta o stampa a fumo.

^^^Nel marzo 1919 Amedeo e Jeanne rientrano a Parigi. Vanno ad abitare proprio in rue Campagne Première, nuova tappa delleterno insieme. A luglio Amedeo firma un impegno di matrimonio in cui promette di sposare Jeanne, che è di nuovo incinta. Amedeo ritrae Mario, un musicista greco, e Jeanne con maglione che trabocca sui fianchi allargati. E si concede un autoritratto in cui appare molto magro.

Amedeo è un consumatore smisurato di superalcolici. Paga i conti del bar sotto casa con i propri quadri.

Dopo aver partecipato al Salone d’Autunno, Amedeo si ammala gravemente.

Il 24 gennaio 1920, allHôpital de la Charité, l’anima di Amedeo varca una finestra appena schiusa, ma non prende la via delle stelle appese al buio: l’anima rimane a gironzolare sopra le vie gelate di Montparnasse.

La mattina dopo Jeanne va all’ospedale per rivedere Amedeo. La accompagna il padre, silenzioso e ostile anche verso la salma dell’ebreo alcolista che ha rovinato la sua bambina. Il padre rimane sulla soglia mentre Jeanne si avvicina al cadavere. “Non lo bacia” – scrive Stanislas Fumet, amico d’infanzia di Jeanne – “ma lo guarda a lungo, senza dire nulla. Si ritira a ritroso, cercando di conservare il ricordo del viso del morto e sforzandosi di non vedere nient’altro”. Nella casa di padre e madre, poco distante dall’ospedale, Jeanne comincia a rimuginare un refrain senz’altro simile a quello di una canzone che Vinicio Capossela ha dedicato a lei e a Modigliani: “Ho paura di stare a restare da sola a scordarmi di noi. E allora sto vicino a te, questa notte e domani”.

Sempre a casa dei genitori, nell’ora blu che precede l’alba, Jeanne si butta dalla finestra del quinto piano. Ad un metro dallo schianto in terra, l’anima di Jeanne si invola dal corpo. E subito l’anima corre a prendere a braccetto quella di Amedeo, intirizzita dal girovagare notturno: le due anime si incamminano insieme, verso quelle costellazioni che a breve schiariranno^^^

Ultima preghiera di Jeanne Hébuterne

Signore, voi che siete il pediatra del sole bambino, fate che la luce del sole nasca nel cuore all’ombra del mio Amedeo. Magari, perdonando l’impudenza, prendete una valigia d’albe dal mio cuore senza notte e abusate pure del contenuto/Signore, voi che fate fiorire il tulipano viola dalla natura daltonica, ridate il colore di rosa alle guance del mio Amedeo e, per cortesia, colorate di pesca anche le mie che stanno impallidendo/Signore, voi che con le rondini scarabocchiate la verità su una lavagna azzurra, intingete il becco di un rondinotto nel mio sangue e scrivete “Vita” dietro gli occhi di Amedeo. E, per gentilezza, controllate che il mio sangue non finisca/La felicità esiste da sempre, Signore. È il dono che mi faceste per la promessa di nozze ed è di pessimo gusto venire a reclamare i regali/Affinché la felicità esista ancora, queste sole cose vi chiedo, Signore: FATE VIVERE AMEDEO e fatemi vivere con lui/E scusate se ho imparato a memoria questa mia preghiera e se l’ho recitata in fretta. Ma il tempo, tra davanzale e selciato, è davvero breve.

Carlo Maria Milazzo

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