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Parigi, la notte benedetta di Toulouse-Lautrec

N. 99- Aprile 2025

 

 

 

Parigi, la notte benedetta di Toulouse-Lautrec

Accade a volte che un destino cinico, ma mai baro, decida di deviare il corso di eventi scontati. Toulouse-Lautrec, ad esempio, è destinato per nascita a condurre una vita da nobile aristocratico e invece dipana la sua esistenza da artista bohémien, in un contesto agli antipodi di quello d’origine.

Henri Marie Raymond de Toulouse-Lautrec Monfà (nome ironicamente chilometrico per uno che da adulto è alto 1 metro e 51) nasce ad Albi, Midi-Pyrénées, Francia del Sud-Ovest. I genitori sono cugini, un conte e una signora di blasonata famiglia. È il 24 novembre del 1864.

Il giovane Henri potrebbe palleggiare il suo domicilio tra castelli dell’Aude, un maniero nei pressi di Bordeaux, ricche dimore parigine. Potrebbe saltare da ricevimenti sfarzosi a gite in carrozza nelle campagne fiorite, da lezioni di equitazione a cacce col falcone.

Ma il giovanotto ha lacune cromosomiche impietose, derivate dalla consanguineità di mamma e papà. Una fragilità ossea non permette alle tibie fratturate di saldarsi e di crescere normalmente. Le gambe si deformano così sotto il peso del busto e incedono con andatura caracollante. I lineamenti del volto, poi, si alterano: le guance protrudono, le labbra si ispessiscono, i padiglioni auricolari assumono posizioni diagonali. La lingua si ingrossa causando imperfezioni nella pronuncia.

A 15 anni Henri, costretto a periodi di immobilità per i guai fisici, inizia a disegnare. Dopo qualche lezione di tale René Princeteau, mediocre riproduttore di purosangue, il ragazzo comincia a dipingere. I primi quadri, prevedibilmente, raffigurano cavalli cui si affiancano, di tanto in tanto, un palafreniere, un cocchiere, uno stalliere. Il talento non sembra mancare, intravisto anche dalla madre, contessa Adèle, che definisce affettuosamente il figlio “il mio futuro Michelangelo” (il padre Alphonse raccomanda invece al rampollo di firmare le tele con pseudonimi, per non infangare il buon nome della casata).

Nel giro di un anno Henri acquisisce la nitida consapevolezza del proprio talento……che cioè/ ovverossia/sarebbe a dire?

Tu, pittore, sai di avere talento quando, a contatto con la tavolozza, sei pervaso da massiva trepidazione sottocutanea/quando, allo specchio, ti vedi bagliori negli occhi come se le iridi friggessero nell’olio/quando scorgi la possibilità di una nuova espressione artistica (Dio non l’ha mai concretizzata)/quando allora te ne freghi dei consigli e vuoi correre solo rischi/quando ti senti irregolare-anarchico-inclassificabile e al contempo capace di capolavori/quando l’angelo custode si sporge a est del cuore e ti incita come tu fossi un boxeur in lotta per il titolo mondiale/quando ti percepisci reale solo nel tempo in cui crei.

A 19 anni Henri è già a Parigi, lasciata la provincia natia che gli avrebbe riservato solo pietà pelosa, chiacchiere dietro le spalle, risolini verso tele incomprese.

La Butte di Montmartre diventa la sua residenza, ospitato da altri pittori (dapprima è presso Albert Grenier al 19 di Rue Fontaine, poi a casa di Henri Rachou in Rue Ganneron 22 e quindi da François Gauzi, in Rue Tourlaque 7). Ai piedi della Butte frequenta lo studio di Léon Bonnat, ritrattista di Louis Pasteur/Victor Hugo/Alexandre Dumas figlio/Dominique Ingres/Hippolyte Taine/Émile Loubet.

La collina di Montmartre è al di là del confine col nucleo urbanizzato di Parigi. È ai margini, come ai margini sono i suoi abitanti: piccoli artigiani, sguattere, sartine, comunardi, ladri, tagliagole, puttane, magnaccia, artisti carichi come molle. Le case sorgono sul lato sud mentre nella parte alta la Butte conserva fisionomia agreste, zigrinata dai filari delle vigne, imbiondita dai campi di grano, costellata da qualche mulino superstite. Il versante nord è un intrico di rovi e gineprai attraversati da sentieri polverosi.

Tra il 1885 e il 95 la zona bassa della Butte si apparecchia per diventare il fulcro della Belle Époque. Le bettole si trasformano in graziosi ristoranti. I bar potenziano le luci. Aprono teatri/cabaret/cafè chantant: per primo “Le chat noir”, seguito dall’ “Elysée Montmartre”, quindi dal “Casino de Paris” e dal celeberrimo “Moulin Rouge”. Il teatro delle ombre, le operette, la rivista, gli chansonniers, ottime cantanti attirano la Parigi “civilizzata”, quella degli uomini col cilindro e delle donne ingioiellate. Cresce il divertimento e si insinua pure una sottile offerta intellettuale.

Poi si ha l’esplosione delle ballerine, siano esse ex lavandaie, ex attricette, ex finto-esotiche danzatrici del ventre. Sui palchi le danseuses si lanciano in can can tellurici: mostrano le gambe ma non solo, visto che i poliziotti della buoncostume sono spesso incaricati di controllare che le chahuteuses portino la biancheria intima. (Dicesi chahut lo scalciare in alto nei balli che mostrano le sottogonne e magari qualcosa in più).

I bordelli si moltiplicano e molte ballerine passano, nella stessa serata, dal proscenio al letto già occupato da un altolocato del “bel mondo”.

Nel 1986 Toulouse-Lautrec prende dimora all’interno di uno dei postriboli più frequentati, al 6 di rue des Moulins. Di tanto in tanto qualcuna delle signorine del lupanare, raddolcita dalla sua bruttezza, se lo porta sotto le lenzuola. Ma per la maggior parte del tempo Henri è solo e non riuscendo a dormire per i gemiti che giungono dalle stanze accanto, eccolo preparare del cartone su cui abbozza col colore viola diluito dalla trementina delle figure, che poi lumeggia con pennellate di bianco. Asciugatesi queste prime tinte rimane sul cartone un disegno che pare fatto col pastello. Su quel bozzetto Lautrec stende poi gli altri colori, soprattutto verdi e blu che si confrontano intrepidi con i malva e con i rosa mentre i gialli e i rossi tentano invano di fare da pacieri.

Nascono i quadri raffiguranti le prostitute sul luogo di lavoro, giovani donne sprofondate in divani color fuoco in attesa dei clienti/addormentate seminude su cuscini albicocca/spiate in deshabillé mentre chiacchierano/guardate mentre, su brande sfatte, si scambiano carezze e baci alla faccia dello squallore degli habitué.

La sera 14 luglio del 1901 Toulouse è sulla Place du Tertre (letteralmente “della collinetta”). È seduto al tavolo all’aperto dell’antico ristorante “À la Mère Catherine (dove nasce il termine bistrot. Si narra infatti che nel 1814 dei cosacchi si fermino nel locale; ordinando da bere, incitano gli osti a essere veloci. Urlano “bystro!” che in russo vuol dire “Presto”). A pochi passi la Basilica du Sacré-Cœur è ancora una montagnetta di bianchissimi mattoni scollegati.

Henri è un uomo distrutto. La sifilide gli ha trivellato le meningi, la dipendenza dalla fata verde gli ha sbrindellato il fegato, un ictus ha limitato alcuni muscoli facciali.

Però il pittore è ben vestito: pantaloni neri di lana leggerissima, camicia grigia, bretelle, occhiali tondi  puliti, bombetta immancabile. La barbetta ben tagliata gli guarnisce la mandibola.

Toulouse è ormai poco autonomo e di lui si prende cura Xavier del Circo Fernando, ex piegatore a mani nude di sbarre di ferro. Il badante ha faccia da luna piena e una Stonehenge dentale. È così alto che può potare le querce senza bisogno della scala/ha così tanti muscoli che se andassero in acido contemporanemente lui manderebbe un urlo di dolore da Polifemo accecato/ha un piede con 10 ossa sovrannumerarie rispetto alle 28 canoniche. Quando Xavier prende in braccio Lautrec è come se dovesse spostare un vaso di fiori.

Al ristorante Henri e Xavier mangiano galletto cotto nel vino rosso. L’ex piegabarre tagliuzza il ruspante in modo che il suo assistito sia facilitato nella masticazione. E dal momento che il gallinaceo si è intriso di succo d’uva, perché mai non dovrebbero impregnarsi di vin rouge anche i commensali? “Hôtesse, du vin s’il vous plaît!”

Su una sedia se ne sta tranquillo il cormorano Antoine (Antuan le cormoran, sentite come suona bene), con un guinzaglio che lo allaccia al piede del tavolo. È un uccello che Henri ha catturato a Bayonne e che ha addomesticato: Antoine gli sta sempre accanto o sulla spalla o sulle ginocchia. Ad un platano è legato Philibert, pony da maneggio cui Toulouse è affezionato perché lo porta in giro in calesse.

Xavier appende al muro esterno del ristorante un quadro che Henri ha donato all’Hôtesse. È uno scorcio del Moulin Rouge: sulla destra sta uscendo di scena una bionda zafferano/labbra scarlatte/volto ombreggiato di verde; il tavolo centrale è accerchiato dallo scrittore Edouard Dujardin, dai fotografi Paul Sescau e Maurice Guibert e dalle relative escort dell’epoca.

Poco dopo la mezzanotte arrivano alla spicciolata quelli che hanno già fatto “nottata”. Per primi quelli dello spettacolo circense: trapezisti a torso nudo, sette nani da fratelli Grimm, il domatore di cavalli in giacca rossonera, il logopedista del pappagallo Laurent (che bercia Misère merde), la contorsionista in tuta rosa nata in un villaggio dell’Indocina francese.

Poi arriva Cha-U-Kao, che sulla pista del Fernando si è inventata la professione di “clownessa”. Henri la irride chiamandola il primo pagliaccio con le tette. Nel ritratto del 1895 lei veste un abito nero, appeso con sottili spalline, che si stringe in vita per poi allargarsi in pantaloni sbuffanti, destinati a infilarsi dentro alti stivali. Una svolazzante gorgiera gialla, invece che corredare la gola, scivola ad appoggiarsi sui seni. Il décolleté è generoso e avorio. Un nastro ancora giallo orna la parrucca platinata.

Da intrattenitrice al circo Cha-U-Kao si evolve in ballerina nei locali alla moda: il suo nome è la crasi del termine chahut, già spiegato, e della parola chaos, il tripudio infernale che si scatena quando l’ex clownessa appare sul palco.

Ora Cha-U-Kao ha gli occhi abitati da una soffocata tenerezza e i fianchi sono ingrassati.

Poi arriva un’altra ballerina, Jane Avril, maximum del fascino. Jane è una moretta dalla faccia da monella malinconica. È vestita da contadina alla festa del paese ma i guanti salgono ai gomiti e rose bianche di stoffa sbocciano sulle spalle. Una postura appena inclinata le butta in fuori il deretano. La donna condivide con Mosè il salvataggio dalle acque; solo che lei tenta il suicidio nella Senna e viene ripescata da quattro prostitute prontamente tuffatesi. Jane la Folle, come la chiamano al Moulin Rouge, è pure coreografa dei propri spettacoli di danza. Henri l’ha stilizzata su vari cartelloni pubblicitari.

Chiunque arrivi, come prima cosa, tocca il membro consistente di Toulouse. Il priapismo, connesso alla lue, ingrossa il fallo di Lautrec e lo evidenzia in un gonfiore della patta. Bonne chance, augura Henri a chi gli strofina il pene.

I personaggi amici di Toulouse sono tutti particolari. Henri, da vero bracconiere di tipi umani, li scova tra les gens de la nuit. E vuole proprio persone inconsuete che posino per lui.  A Lautrec interessano volti e corpi; come afferma in una lettera all’amico Maurice Joyant: “Solo la figura esiste. Il paesaggio o lo sfondo non devono essere che accessori. Il pittore paesaggista è un bruto”.

Partono i fuochi d’artificio celebrativi della Presa della Bastiglia. Fiori arancioni si schiudono in alto/ spugne rosse si frammentano in gocce-rubino/cupole azzurre si sbriciolano in schegge-zaffiro/ombrelli rosa si smembrano in filamenti-medusa/mitragliate gialle crivellano la notte innocente. Dopo le ultime fiammelle la luna bella fa capoccella.

Poi arriva Valentin-Le-Désossé, star del Moulin Rouge. Il “disossamento” nel soprannome rende la sua magrezza da fachiro stomacato dai vetri che s’è mangiato. Il naso e il mento sono così prominenti che potrebbero minargli l’equilibrio. Valentin è un ballerino snodato quanto un serpente, precursore di Adriano Celentano. Lui danza, con tacchi sonori, nell’elegante frac e le spettatrici vanno in visibilio, alcune meditando di accedere all’agenda in cui il molleggiato segna gli appuntamenti da gigolò.

Poi arriva Louise Weber, ex lavandaia alsaziana e poi ballerina anche lei. Nel quadro del 1892 che la vede entrare al Moulin, Toulouse le lascia la genuinità paesana e l’aggressività popolana. Louise ha capelli color torcia che si impennano dalla testa come una statuetta. La donna vorrebbe scheggiare un sorriso civettuolo ma le esce solo una mezza smorfia da dilettante della seduzione. L’abito ha però una scollatura vertiginosa, con una V che parte dall’ombelico e sale a tagliare i seni, lasciandoli per metà scoperti. La vita è sottile e le anche tendono a destra, a conferire flessuosità dinamica.

Il nomignolo della Weber è ora quello di “la Goulue”, la golosa. Il richiamo irrinunciabile del cibo l’ha appesantita tantissimo. Da star della quadriglia, arricchita dalle sue personalissime sculettate, la Goulue sostituisce adesso, qualche volta, la donna-cannone del Circo Fernando.

Toulouse schiocca le dita e Xavier entra nel ristorante-bistrot. Ne esce con un vassoio lungo quanto una panchina. Sopra traballano bicchieri pieni del cocktail inventato da Lautrec, un miscuglio di verde assenzio, di vino rosso, di mandarinetto, di bitter e di champagne. Henri dice che quella bevanda lascia in bocca la sensazione della coda di un pavone.

Si brinda e Valentin urla: –Qui est le peintre, le plus grand du mond entier?

Tutti gridano: -Toulouse, Toulouse, Toulouse-

Poi Valentin suona la fisarmonica e si canta una canzone che fa venir da piangere visto che parla di mamme, fratelli e sorelle.

Ma poi si ride: La Goulue racconta di quel riccone impotente a cui ha legato al pene una mezza stecca da corsetto per tenerglielo dritto.

Valentin racconta di quell’ammiratrice feticista che gli ha pagato una giacca nuova per tenere la sua vecchia da odorare.

Il logopedista del pappagallo Laurent racconta di quando l’uccello ha detto Merde a una stagionata suora……

Poi Lautrec libera il cormorano Antoine e gli sussurra: -Vai a farti un giro e se non ti va di tornare, non tornare-

Henri Toulouse-Lautrec tira le cuoia due mesi dopo, 9 settembre 1901.

Probabilmente muore fregandosene di finire sotto terra: una notte come quella del 14 luglio non si baratta nemmeno con 20 anni di cieli azzurrissimi.

                                                                                                   Carlo Maria Milazzo

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