Lecce: secoli di storia sotto il pavimento del bagno

Scoprire la storia di Lecce passando per gli scarichi del bagno. Potrebbe essere sintetizzata prosaicamente così la storia di un cuoco che dalla città pugliese è finito sui giornali di tutto il mondo.
All’origine c’è una banale perdita di un tubo di scarico del WC, ma a far assurgere il fatto agli onori dei grandi media mondiali è stato un giornalista del New York Times: non un pellegrino qualsiasi, ma addirittura Jim Yardley, redattore europeo del grande giornale newyorkese, premio Pulitzer nel 2006 per una serie di articoli sul sistema della giustizia in Cina.
I fatti: nella primavera del 2015, Yardley si imbatte a Lecce nel piccolo museo privato Faggiano la cui storia lo appassiona così tanto da pubblicare il 14 aprile un articolo con tanto di foto in prima pagina sul New York Times, con iltitolo “Una ristrutturazione domestica apre un portale sul passato dell’Italia”.

Alla pubblicazione su cotanta testata fa seguito nei giorni immediatamente successivi l’interessamento di altri importanti giornali, Le Monde, Indipendent, Daily Mail, Mirror, China Times, cui seguiranno televisioni e radio nazionali e internazionali.
Il museo Faggiano di via Ascanio Grandi 56 a Lecce diventa così un’attrazione mondiale. Un successo meritato perché in una piccola area si concentrano oltre duemila anni di storia: dai Messapi, arrivati in Salento dai Balcani nel nono secolo avanti Cristo, ai romani e poi ai templari nel Medioevo e a un convento di suore nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, fino ai giorni nostri, quando (è il 2001) il cuoco Luciano Faggiano decide di acquistare un immobile per farci una trattoria. Un bell’immobile appena dentro porta san Biagio, che ha il solo difetto di mura umide per una probabile perdita di un tubo di scarico del bagno.
Come racconta il giornalista del New York Times, Faggiano e i figli cominciano a scavare alla ricerca del tubo rotto, ma si trovano in un tourbillon di scoperte che, picconata dopo picconata, portano ad oltre dieci metri di profondità, attraversando più di venti secoli di storia.

I Faggiano riportano alla luce le mura di un antico convento di suore chiuso intorno al XVI-XVII secolo; un pavimento presumibilmente di epoca messapica (V secolo a. C.) con fori circolari che servivano per la costruzione di capanne, una grande cisterna scavata in roccia a sezione campaniforme del XV-XVI secolo, un`altra cisterna a pianta rettangolare, un ampio silos per conservare grano e derrate alimentari di epoca medievale; i resti di una struttura muraria, una vasca a pianta circolare, un`altra ampia cisterna, un pozzo profondo 10 metri dal quale si può vedere l’acqua dell’Idume (fiume sotterraneo che riemerge a una quindicina di chilometri fuori dalla città), una cisterna a pianta quadrilatera, una vasca rettangolare. Tra le opere scavate in roccia si possono ammirare una piccola tomba di bambino, una tomba grande comune, un essiccatoio in roccia usato per decomporre i morti, un tratto di strada sotterranea che collegava l`edificio ad altri luoghi della città.
Ce n’è abbastanza per comprendere l’importanza di questo sito e la meraviglia che ha destato nel giornalista americano.
Ma a chi ha la pazienza di ascoltare i proprietari, ciò che colpisce è anche la storia di come è nato il museo. In fondo un italiano sa benissimo di essere seduto su uno scrigno di bellezze archeologiche. In quasi tutte le città più antiche basta scavare per ritrovarsi tra le mani reperti su reperti. Ma quello che è successo nel piccolo museo ha pochi precedenti in Italia per come e da chi è stato fatto.
Quando nel 2001 hanno cominciato a scavare, i proprietari avrebbero potuto limitarsi ad andare avanti fino a trovare la perdita del tubo del WC senza badare a quello che stava emergendo (come aveva fatto probabilmente nel secolo precedente chi aveva messo il tubo stesso). Invece i Faggiano hanno subito capito che stavano maneggiando la Storia, con la S maiuscola. Si sono appassionati e hanno lavorato con cura e attenzione per riportare alla luce i reperti e le fondamenta non solo della loro casa ma della loro cultura.
Hanno scavato così tanto da far scattare l’allarme in qualcuno che ha informato la soprintendenza dei Beni Archeologici, subito intervenuta. Inizialmente a gamba tesa, come racconta la signora Anna Maria Sanò, moglie di Luciano Faggiano, “ci hanno trattato come una sorta di tombaroli, di saccheggiatori di beni archeologici”.
C’è voluto del bello e del buono per far capire a quelli della soprintendenza e agli altri amministratori pubblici che non c’era volontà predatoria e che erano ben altri i motivi che spingevano la famiglia Faggiano a scavare. È a questo punto che, secondo noi, avviene un piccolo miracolo all’italiana: la passione del privato si incontra con un ente pubblico una volta tanto capace di comprendere e, se non di sostenere, quantomeno di non ostacolare chi vuole fare qualcosa di bello.
Dopo un lungo tira e molla, ai Faggiano viene dato il permesso di continuare gli scavi a patto che sia sempre presente almeno un archeologo della soprintendenza.
Ed è così che, da privati, a proprie spese, con la supervisione pubblica, i Faggiano hanno riportato alla luce e messo a disposizione (dal 2008) della società civile un pezzo di storia di un angolo di Italia che nei secoli è stato un ponte tra l’Oriente e l’Occidente.
Giuseppe Di Paolo