Le stelle di Cannes
Cannes è città piccola: due ore di cammino euritmico e la giri tutta. Il Boulevard de la Croisette è tra i viali più famosi al mondo, fotogenico con gli alberghi art-déco/le palme dalle foglie rigide come lame di giada/il mare frangiato d’argento che lo lambisce. Il cielo, in ogni stagione, è azzurro ipnotico e solo l’urlo dei gabbiani digiuni evita la trance.
Sulla destra, guardando il Mediterraneo, erompe un brufolone collinare, il Suquet, con resti di un castello anti-saraceni del 1000 e la chiesa Notre Dame de l’Esperance del 1500.
Cannes, capitale del cinema….
Un uomo, una donna. Spasimo. La notte del piacere. Amour. La conversazione. Cronaca degli anni di brace.
Un uomo, una donna. Orfeo Negro e la Vergine indiana? Un uomo da affittare? Il pianista e (lei) lezioni di piano? La dolce vita?
Un uomo e una donna. Addio mia concubina, quando volano le cicogne/i campi scarlatti/il vento che accarezza l’erba. L’inverno ti farà tornare.
(Titoli di film che hanno vinto la Palma d’oro o il Grand Prix du Festival).
Il festival di Cannes si tiene nella seconda metà di maggio. Non è facile essere ammessi alle proiezioni: o sei un ministro della Grandeur française, o sei germogliato da un albero genealogico frondoso di re, o sei un Briatore con Hammer che occupa dodici posti macchina (cogito ergo SUV), o sei una Carla Bruni che, come pass, le basta il sorriso diagonale e mélancolique, o sei il Rothschilddella villa omonima (ROGITO ergo sum).O sei lo sceicco di Doha col codazzo di califfi panciuti (Alì Kebab e i 40 montoni), o sei il proprietario dello yacht con la poppa in Corsica, o sei la badante di Biden che sorregge Joe convinto di trovarsi al luna park. Oppure sei un fotografo accreditato (cogito ergo ZOOM), oppure il critico cinematografico di un giornale a grande tiratura, oppure l’inviato di una TV generalista.
Oppure sei uno dei ragazzi under 30 che, grazie a un’ottima iniziativa del Comune, usufruisce di un invito speciale alle sale cinematografiche.
Non ho mai avuto titolo per presenziare al festival. Sono a Cannes soltanto in un inverno tiepido come il sedile della metro dopo che si è alzato un passeggero culone. Cosa mangio/bevo a pranzo, a un tavolino all’aperto?
Pissaladiere: quadretto di focaccia spalmato con acciughe ridotte a crema, guarnita da cipolle caramellate e punteggiata da piccole olive nere. Le papille si dividono tra tifose del sapore deciso delle acciughe e supporter del gusto dolciastro delle cipolle.
Bouillabaisse: zuppa di scorfano rosso e gallinelle di mare, condita con erbe di Provenza, aglio, pomodori. Fondamentale la salsa-ruggine, la rouille, aggregazione di olio/pangrattato/zafferano/ aglio/tuorlo d’uovo/peperoncino; vi si intinge un crostino, che va poi nel brodo pescioso: la lingua viene frustata da spezie furiose.
Tarte Tropézienne: brioche aromatizzata ai fiori d’arancio e farcita con tre creme: di burro, pasticcera e Chantilly. Due morsi e il colesterolo è in quadrupla cifra.
Vin de sable: bianco da vitigno chardonnay cresciuto tra la sabbia e gli stagni della Camargue. Vago profumo di ananas e sapore fruttato che s’attacca al palato.
Ho detto che non ho mai visto il festival e mi dispiace. Il cinema è per me una mamma che da 60 anni mi racconta favole magnetiche. Mi sono chiesto più volte quale sia la magia del cinema: una delle risposte che mi sono dato è che nel cinematografo si crea uno spazio di vita, pulsante e autonoma, tra la mia poltrona e lo schermo. C’è una contaminazione tra il flusso dei miei pensieri e quello delle immagini e dei suoni, e avviene nell’aria che circola tra il mio posto e il grande schermo. Lì sussiste l’ibrido fatato dove si trova ciò che appartiene al mio sguardo e ciò che è la materia filmica. In quello spazio io non posso dire di essere “io” e nemmeno l’attore/il regista/il Morricone di turno possono dire di essere “loro”. Lì si costruisce ex novo la realtà delle menti.
Vado pazzo per quell’area sospesa/trasparente/senza peso tra poltroncine e scena, una radura sacra, il domicilio dell’empatia, l’utero socratico dove io e gli autori del film ci conosciamo a vicenda (ostetrici gli uni degli altri), la fucina di una nuova estetica. Quando m’incammino verso un cinema sono sempre carico a molla, come stessi andando a una festa permanente, a un rito dionisiaco, a un carnevale ininterrotto, a un sit-in non stop contro la miopia del mondo.
Il primo film di cui ho vaga rimembranza è Il sergente York, visto in una televisione in bianco e nero col tubo catodico incoraggiato da pacche secche. Lo guardo a 7 anni, da una seggiolina di plastica, insieme ai genitori. Mi colpisce la parte in cui un legnoso Gary Cooper è il contadino che contesta l’arruolamento per la prima guerra mondiale. Si fa forte della sua ispirazione religiosa, scaturita dopo che un fulmine lo colpisce in un temporale. Il coltivatore Alvin York afferma molto semplicemente: “In guerra si uccide e la Bibbia ce lo vieta. Perciò la guerra è contro la Bibbia”. Ma il riluttante York viene convinto dai graduati dell’esercito a combattere per tutelare la libertà del suo paese e per abbreviare la durata della guerra, riducendo il numero delle vittime (demagogia sovranista, n’est pas?). Gary Cooper presta servizio nelle Ardenne, dove, con elmetto a lavabo rovesciato/concentrato e rapido col fucile, falcidia una compagnia tedesca fino a catturarla. Il sergente York rientra al suo paese decorato quanto un idolo primitivo, acclamato come eroe nazionale, abbracciato dalla fidanzata inorgoglita, festeggiato dal cane-nipote di Rin Tin Tin.
Stranamente mi ricordo che, a letto, sotto le coperte, mi metto a sostituire con immagini mie alcune parti del film che non condivido. Lì il cinema interagisce, per la prima volta, col mio sentimento e la mia predisposizione a fantasticare.
Ribadisco per la terza volta che non ho avuto il piacere di partecipare al festival. Quell’inverno mite, a Cannes, mi siedo su una panchina della Croisette. Mi immagino la passerella di attori e attrici verso il Palais des Festivals et des Congrés, astronave bianca che nasconde il porto.
Ho versato in una bottiglietta di plastica del French 75, cocktail che Bogart, la Bergman e il pianista Sam sorseggiano in Casablanca. Cocktail francese: durante la seconda guerra mondiale, Casablanca è nel Marocco controllato dal Governo di Vichy. Cocktail francese per gli ingredienti: 2 parti di cognac, 4 parti di champagne, succo di limone, fetta d’arancia, un cucchiaio di zucchero di canna, 2 gocce di angostura. Centellino melodrammaticamente.
La prima che passa è Meryl Streep, irradiata dalla pelle bianca del décolleté, dalla spilla 24 carati, dalla pasta dei capelli biondi tirati all’indietro. Il contrasto del vestito e delle scarpe nere è spudorato. Borsetta dorata sottobraccio. Meryl tiene sempre occhi e mento un po’ in su, come una santa o una regina di fronte all’omaggio del popolo. (“La verità è che non c’è nessuno che sappia fare il mio lavoro” – Meryl/Miranda in Il diavolo veste Prada……anch’io la penso così sulla mia professione)
Poi transita George Clooney, abito Armani perfetto come l’avesse cucito il sarto di Dio. Barba grigia che invecchierebbe anche Matusalemme. Capelli pettinati verso sinistra. Sguardo a metà tra il perbenista filisteo e l’amico che al bar racconta di donne tra silenzi simpatizzanti. (“Conosco tutti quelli che ingaggeresti per farmi la pelle e a tutti loro piaccio più di te” – George/Danny in Ocean’s Thirteen……ok George, mi arrendo)
Quindi è la volta di Emma Stone, capelli metà bianchi e metà neri, labbra sottili e spietate, disegnate con un rossetto scuro a forma di arco di Cupido. Occhi blu da periodo omonimo di Picasso. Vestito nero sadomaso, con scollatura a spada rosa. Bastone-scettro in pugno. (“Non puoi avere a cuore nessun altro, chiunque altro è un ostacolo” – Emma dando voce a Crudelia nel 2021……categorica)
E dopo la scuoiatrice di cani dalmata, voilà l’animalista per eccellenza, Brigitte Bardot (cogito ergo OPOSSUM). B.B. è pure vegetariana, lattofoba, crudista, fruttariana, no gluten, no vax. Vietato il monokini di sua invenzione, indossa mini-abito rosso come sangue di foca vittima di bracconiere. Stivali bianchi fin sotto le rotule. Girocollo choker. Dito appeso al labbro inferiore. I capelli biondi e gonfi incrementano negli anni 60 l’uso di camomilla: molte donne vogliono schiarirsi le capigliature per averle come lei. (“Oh, l’avvenire! L’hanno creato solo per rovinarti il presente” – Brigitte/Juliette in E Dio creò la donna……carpe diem, regina di Francia)
Poi Toni Servillo, magro come una gruccia, un velo di barba grigia, completo bianco. Cammina ma sembra fermo. Lui regge un intero film anche stando immobile e pronunciando magari tre battute in tutto. Recita solo con piccoli movimenti nel volto, trasmette vibrazioni attraverso gesti minimi. Riesce a creare la mobilità rimanendo nell’impassibilità. È il solo attore capace di questo. Il teatro l’ha forgiato; attore è anagramma di teatro. (“È così triste essere bravi, si rischia di diventare abili” – Toni/Jep Gambardella in La grande bellezza……capisco la mediocrità dell’abilità)
Dopodiché Sean Connery avanza con falcata cauta e sicura, guardingo ma deciso come 007. Sarcasmo incombente gli circola tra le basette/il labbro superiore appena angolato/le sopracciglia più espressive della storia del cinema. Papillon mutuato da James Bond su camicia bianco abbagliante. (“Dominazione del mondo: il solito sogno. I manicomi sono pieni di gente che crede di essere Napoleone” – Sean/Bond in Agente 007 Licenza di uccidere……magari i Napoleoni fossero nei manicomi!)
E ancora Gérard Depardieu, 7 litri di capacità polmonare, massiccio come un armadio di noce. Con 10 sue figurine adesive si riempirebbe un album intero. Lavallière morbida (la cravatta lo strangolerebbe). Sguardo ondoso, fluidificato dalle 12 bottiglie quotidiane di champagne (e non da dosi eccessive di pozioni di Panoramix). Con una spada in mano infilzerebbe il primo che gli capita a tiro, come un Porthos esaltato. (“Se poi viene il trionfo, ebbene, fatti suoi. Ma mai diventare come un tu mi vuoi” – Gérard/Cyrano de Bergerac……io nel curriculum ho sconfitte trionfali)
……Nicole Kidman, gambe tendenti all’infinito/Danny De Vito, nano anche dopo il trapianto di femori/Jack Nicholson, cattivo a livello Shining; cattiveria è anagramma di creatività/Johnny Depp, dark e alticcio (cogito ergo RUM)/Scarlett Johansson, scollo a cuore su seno da locandiera goldoniana/Leonardo Di Caprio, invecchiato male come un’automobile che non abbia mai conosciuto il garage/Keira Knightley, appena scesa da un carillon/Anthony Hopkins, hannibalmente mordente/Stefania Sandrelli, gloriosamente ancheggiante/Will Smith, faccia da furbetto (ESCOGITO ergo sum)/ Charlize Theron, atomica bionda con strascico rosso lungo mezzo boulevard/Cate Blanchett, diafana nell’abito monospalla grigio/ Sylvester Stallone, trumpiano e guerrafondaio (cogito ergo BUM BUM)/Monica Bellucci…………….no, per Monica Bellucci attuo uno sciopero: la Bellucci abita in Francia da tempo, attualmente in un attico a Parigi, ma dice di sentirsi straniera; quando ha preso la residenza in Lussemburgo, non l’ha fatto per motivi fiscali, ma perché lì si sente perfettamente integrata.
Finita la sfilata immaginaria, applaudo in piedi, solo, sulla Croisette. Dai, potrei essere dentro un fotogramma di film, un attore in un cameo, con la telecamera che ha bisogno esattamente di me. Ma comunque a me non fregherebbe proprio niente di essere una star. Io voglio essere una leggenda.
Carlo Maria Milazzo