Il gusto del cibo conosce la geografia?

Massimo Montanari, professore emerito all’Università di Bologna ove ha fondato il master in Storia e cultura dell’alimentazione, ci ha donato il suo uovo di Pasqua: la Geografia del gusto, pubblicata dal Touring Club Italiano nella collana Agorà. Partendo dal fondamentale assunto che il paesaggio è una costruzione dell’uomo, e dunque una geografia ridisegnata dalla storia, Montanari riesce nella complessa impresa di offrirci un viaggio in Italia fra i paesaggi del cibo dal Medioevo ai giorni nostri. Lo storico chiarisce fin dall’inizio che la dimensione italiana della cultura prescinde dall’Italia come entità politica e statuale e pertanto si può parlare di cultura alimentare italiana anche nel Medioevo e nell’età moderna, come del resto ha fatto Ortensio Lando intitolando nel 1548 il Commentario delle più notabili et mostruose cose d’Italia et altri luoghi in cui rileva, procedendo dalla Sicilia verso nord, anche le specialità gastronomiche.

«La straordinaria varietà dei paesaggi e dei prodotti è la cifra che caratterizza la cultura alimentare italiana, da cui trae origine una cucina di altrettanto straordinaria varietà» (p. 16) e i ricettari di cucina che compaiono fin dal Trecento testimoniano la circolazione dei prodotti e dei saperi gastronomici. La prima opera firmata risale al 1460 il Libro de arte coquinaria scritto da Maestro Martino, seguita dal De honesta voluptate et valetudine pubblicata intorno al 1470 da Bartolomeo Sacchi, detto il Platina. Le opere apparse nel Cinquecento, come la Formaggiata di Giulio Landi, i Banchetti di Cristoforo da Messisbugo e l’Opera di Bartolomeo Scappi fanno riferimento alla dimensione cittadina per rappresentare la diversità storico-geografica della cultura gastronomica italiana, in quanto la città in quei secoli controlla l’economia rurale e denomina il prodotto allorché giunge sul mercato urbano. Occorre ricordare tuttavia che nel Meridione si verificò un fenomeno diverso rispetto al centro-nord della penisola con la concentrazione delle funzioni politiche-amministrative del Regno nella capitale; pertanto, si registra un modello «decentrato» nel centro-nord e un modello «centralizzato» del centro-sud a Napoli.

In passato non sempre il rispetto del territorio e delle stagioni era considerato un valore positivo. Offrire agli ospiti prodotti esotici o fuori stagione era un segno del privilegio sociale e un modo per sottolineare il prestigio del padrone di casa; significativo l’episodio della regina Cristina di Svezia che poté gustare il 27 novembre 1655 a Mantova le fragole preparate dal cuoco bolognese Bartolomeo Stefani che lavorava alla corte dei Gonzaga. Dopo aver descritto la centralità cittadina nella costruzione del modello gastronomico italiano, Montanari ci ricorda che la tradizione scritta nel trasmettere la cultura delle élite, in cui il cibo sulla tavola (per esempio con prodotti fuori stagione) era un segno di distinzione sociale, si fa in un certo senso interprete anche della tradizione orale della cultura dei ceti subalterni.
Una data significativa per la definizione del carattere nazionale del patrimonio gastronomico, costruito con l’apporto di tutti, è il 1891 quando Pellegrino Artusi pubblica La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene col progetto «di unificare il Paese negli usi gastronomici così come Manzoni aveva tentato di farlo sul piano linguistico». Si tratta di un’opera fondamentale per la costruzione dell’identità italiana, basti ricordare che «tra il 1891 e il 1911, il testo conosce ben quattordici edizioni» e grazie all’apporto dei suoi lettori «il numero delle ricette cresce da quattrocentosettanta a settecentonovanta» (p. 53). Nel 1931 per iniziativa del Touring Club Italiano (TCI) appare la Guida gastronomica d’Italia in cui sono descritti, con un ampio ventaglio, i prodotti locali e le specialità alimentari. Una prospettiva diversa ispira la Guida gastronomica d’Italia pubblicata nel 1969, maturata in un clima politico molto cambiato, che assume come ambito di riferimento territoriale le regioni. Le regioni, secondo l’autore, non rappresentano la prospettiva più adatta per illustrare la ricchezza della cucina che si esprime sovente in realtà territoriali più piccole o comunque non regionali (come la cucina del Po che attraversa Lombardia, Veneto ed Emilia).

La «geografia del gusto», secondo l’espressione felice del geografo Jean-Robert Pitte, è dunque una realtà di lunga data ed è lontana dal «gusto della geografia» preponderante ai nostri giorni in cui per paura dell’omologazione, insieme all’allentamento del significato del cibo come strumento di distinzione sociale, il territorio e la stagione rappresentano valori di tendenza. Nel 2006 l’Unione Europea ha istituito i marchi di riconoscimento dei prodotti agroalimentari: DOP (Denominazione di Origine Protetta), IGP (Indicazione Geografica Protetta) e STG (Specialità Tradizionale Garantita). Nel 2015 la nuova iniziativa del TCI si intitola I paesaggi del cibo e costituisce «un invito a ritornare al territorio come costante della cultura gastronomica italiana», si tratta di paesaggi «che vogliono essere capiti» per viverli consapevolmente. L’interessante libro si chiude in forma interrogativa: «Cartografare la cultura è possibile? Ecco una bella sfida per il futuro».
Rosaria Campioni
Massimo Montanari, Geografia del gusto. Un viaggio in Italia tra i paesaggi del cibo, Milano, Touring Club Italiano, 2025, (Agorà), 94 p.