Il folle di Auvers-sur-Oise

Nel corso di infanzia e adolescenza pranzo e ceno nel tinello. Il tavolo tondo è nell’angolo di fronte alla porta. Lo circondiamo in cinque: genitori, 2 fratelli, una sorella. Io do le spalle alla parete che confina col terrazzo. La finestra è alla mia sinistra e pertanto non guardo fuori. Sulla parete alla destra è appeso “I mangiatori di patate”, dentro una cornice ondulata, avorio con rigo d’oro. È una copia ben fatta del dipinto di Van Gogh, eseguita con colori a olio da un meccanico di automezzi militari, dipendente dello stabilimento in cui lavora mio papà. L’aggiustatore di camion e jeep è gay e, nomen omen, firma la tela con le generalità di Eros Chiappa (se qualcuno mi taccia di omofobia per questa rilevazione, giuro che vado a cercarlo a casa).
Durante i pasti alzo spesso le pupille ai mangiatori di solanacee. Sono un bambino/ragazzo sempre accigliato, inappetente, magrissimo (la maestra delle elementari mi definisce, in fondo alla pagella, “creatura troppo gracile”: è un velato suggerimento a buttarmi giù dal monte Taigeto). Mastico e rimastico pezzetti di carne che non mando giù e, quando padre e madre non guardano, li nascondo sotto il fondo concavo della bottiglia di vino (è lapalissiano che, in fase di sparecchiamento, i bocconi smozzicati saltino fuori e sollecitino uno di quegli schiaffoni da svellere il becco di un tucano… ma vengo sempre graziato).
Dunque, mentre deglutisco poco e a fatica, i pappatori di patate mi fanno compagnia senza peraltro curarsi di me. Le loro fisionomie sono rocciose e quasi deformi. Hanno mani nodose. Quattro dei cinque commensali sono inespressivi e anneriti, come se le fatiche li stiano cancellando.
L’unica che ha gli occhi spalancati e con un tantino di brio giovanile è la contadina Gordina de Groot. La luce della lanterna a petrolio, fissata alla trave del soffitto, le sdrucciola sulla cuffia bianca arricciata ai lati, sulla guancia, sulle falangi, per poi cascare sull’unico piatto di tuberi gialli. Gordina sarebbe una bella donna se le sgobbate non l’avessero mascolinizzata nel collo che s’attacca alla mandibola/nelle spalle larghe/nelle nocche aguzze.
Ecco, ogni giorno Gordina ha il diritto di rimproverarmi: “Non vedi che mazzo ci facciamo per mettere insieme un desco poverissimo. E tu, signorino rompipalle, fai storie sul cibo abbondante e vario che ti viene servito senza un tuo minimo sforzo”.
“I mangiatori di patate”, ritratti nel 1855 a Neunen (Brabante), è il primo quadro famoso di Van Gogh. Cupo e inesorabile è differente dai monsoni di colori che distinguono il Vincent più popolare.
Io stesso confino i taffia-patate nel ricordo fanciullesco e, se penso al pittore olandese, ho in mente pennellate frenetiche, vivaci, energizzanti per l’osservatore.
Dice Antonin Artaud, pazzo scrittore francese, che “un dipinto di Van Gogh è come un’epidemia, un’esplosione di vulcano, un terremoto, una guerra che sconvolge le monadi dell’aria”. Sono d’accordo con questa definizione quando mi figuro: 1) i campi di Vincent, abitati da movimento tellurico, sollevati come da un’onda sotterranea: i contadini che li seminano sembrano fare surf, con il braccio che aiuta l’equilibrio piuttosto che spargere sementi; 2) i cipressi, di solito immobili come mani giunte, agitati da un ribollio diabolico; 3) gli iris blu tarantolati.
Però mi allontano da Artaud quando considero che le mostre e i musei di Van Gogh sono i più visitati al mondo. Se Vincent comunicasse inquietudini profonde/drammi sovrumani/subbuglio dell’anima non verrebbe contemplato da milioni di occhi: dalle visioni torcibudella è normale scappare (pertanto è giustificato chi si nega alle opere di Francis Bacon, di Théodore Géricault, di James Ensor). Per attirare moltitudini, Vincent deve aver sublimato le angosce in epifanie gradite.
Van Gogh ha domato la furia della Terra, lasciandole intatta la potenzialità distruttiva: l’Apocalisse è ridotta a una famiglia di tigri in gabbia, feroci ma impossibilitate all’assalto. Vincent prepara picnic in cui si avverte la forza della natura, ma si può stare tranquilli a mangiare.
Van Gogh trattiene in sé lo sconquasso cosmico. E distilla capolavori dalle dita.
Il tormento gli produce sofferenza a livello zenitale. Il terrore di diventare esclusivamente pazzo lo attanaglia. Dice Franco Basaglia, abolitore dei manicomi, che la follia è una condizione umana: nell’uomo è presente come lo è la ragione. Sono le percentuali che forse sono determinanti: se la follia è oltre il 90%, allora si regredisce a macachi sovraeccitati; se la ragione è eccessiva si diventa irragionevolmente chiusi/conformisti/perbenisti/filistei/abitudinari/scialbi/rattristati/refrattari (il sonno della ragione, con Goya, genera mostri, ma anche l’iperattività della ragione……)
Il tormento di Vincent si tramuta in voci persecutorie, avvolgenti come pitoni/individua nemici che vorrebbero togliergli la salute/si materializza nell’autolesionismo della mano cotta sul fuoco, della bevuta di trementina, del taglio dell’orecchio. Da questi picchi di pazzia Van Gogh regredisce con i ricoveri all’ospedale di Arles e all’ospizio di Saint-Rémy.
Afferma ancora Artaud che “nessuno ha mai scritto, scolpito, dipinto, modellato, costruito, inventato se non per uscire di fatto da un inferno”. Perciò: chi vuol operare artisticamente deve garantirsi una bella quota d’inferno. Perciò: la creatività relega il creatore nell’inferno della follia, che non deve tuttavia sfondare nella follia totale. Perciò: un inferno vissuto, per l’artista, è meglio di un paradiso gratis. Perciò: il borghese, nel suo minuscolo eden, non è capace di visione artistica. Perciò: il cappellaio matto (Johnny Depp) sentenzia: “La gente vede la follia nella mia colorata vivacità e non riesce a vedere la pazzia nella sua noiosa normalità”.

A guardarlo in faccia Van Gogh non è pazzo. Nelle fotografie che lo ritraggono fanciullo non appaiono tratti di ragazzino disturbato, caratteriale, difficile. I suoi occhi sono da persona grande, di uno che sta pensando con serietà esagerata.
Nei vari autoritratti non si scovano poi tracce di pazzia. I baffi rossi, robusti e scintillanti, sono ben curati. Le sopracciglia quasi depilate hanno la bonarietà di quelle di un salumiere. I capelli sono pettinati anche quando la calvizie li sta diradando. E gli occhi verdi ispezionano con lucidità chi guarda il ritratto di Vincent.
Van Gogh passa i 70 giorni finali dell’esistenza terrena ad Auvers-sur-Oise, 27 km a nord-est di Parigi. Nell’aprile di una quarantina d’anni fa prendo un treno nocciola alla Gare du Nord e in tre quarti d’ora arrivo a Mery-sur-Oise. Con mezzo km di passeggiata tra pini di belle maniere sono ad Auvers. Il borgo è classico: case in pietra, imposte verdi, un canale argento, il prete in motoretta, due signore che chiacchierano spazzando ognuna la soglia di casa propria, un’altra signora in bicicletta con la borsa della spesa agganciata al manubrio, il bucato che placca il vento rugbista, bambini che brasilianeggiano in un campetto da calcio. A metà paese spicca, appena imbiancato, l’auberge Ravoux, ultima dimora di Vincent. La locanda ha una tettoia color fegato sotto cui sono collocati 2 tavolini e 4 sedie dello stesso colore.
La chiesa di Auvers è grigia, con tetti antracite perfettamente inclinati, squadrata nell’abside e nel campanile. Van Gogh ne fa un edificio traballante, quasi ci fossero 50 trattori accesi nel sottosuolo. Nella lettera alla sorella Wil, Vincent scrive: “ho fatto un grande quadro con la chiesa del villaggio; la costruzione sembra violacea contro un cielo blu profondo e piatto, di puro cobalto; le vetrate sembrano macchie blu oltremare; il tetto è violetto e in parte arancione; in primo piano un po’ di verde fiorito e della sabbia assolata rosa”.
Nei 70 giorni conclusivi Van Gogh dipinge 80 tele, un ritmo lavorativo da schiantare un bue anfetaminico. Vincent è nel palleggio tra arte curativa e arte intossicante. L’uomo, quando diventa faber e cosciente della sua opera, ha il massimo godimento cerebrale: le sinapsi scoppiettano come catene di petardi. Ma, ad opera archiviata, comincia la corsa all’opera successiva, corsa che è massacrante, intrisa di follia, velenosa fino al momento della presa di coscienza di essere faber (a volte la fase intossicante, soprattutto se gonfiata dallo stakanovismo, può essere letale).

Il penultimo quadro di Van Gogh è il “Campo di grano con corvi”: pennellate dense, larghe, corpose. Il frumento è sobillato dal vento di sud-ovest e, diviso da un sentiero rosso scuro, pare formare due ali di folle incattivite, pronte allo scontro frontale. Il tratturo scompare inghiottito dalle messi arrembanti. Alla veemenza gialla del grano si contrappone un cielo blu scuro che sta chiamando a rinforzo un temporale di caratura biblica. Il cielo si schiarisce solo in due gorghi celesti, gli occhi di un mostro o quelli di una divinità adirata. Cielo e Terra si affrontano con minacciosità spaventose, ma non si elidono, convivono con le loro muscolarità esibite. Cielo e Terra possono stare insieme, anzi ci sono le graffette nere dei corvi che li congiungono.
Nell’estate del 2020 Wouter van der Veen, direttore dell’Institut Van Gogh di Auvers, riconosce il luogo dell’ultima opera di Vincent: “Les Racines d’arbres”. Le radici, che sembrano ossa azzurre, sono copiate a breve distanza dall’auberge Ravoux. Scrive van der Veen: “Possiamo pensare che Vincent abbia cominciato a lavorare la mattina del 27 luglio 1890, con calma e applicazione, e che abbia continuato nelle ore pomeridiane. La luce che illumina le radici è quella di fine pomeriggio”. Deduce ancora il direttore Wouter: “Van Gogh, terminate Les Racines, rientra nella sua pensioncina per depositare il quadro. Esce di nuovo per raggiungere la vicina campagna e, tra le 19 e le 20, si spara un colpo di pistola al petto. A parer mio è in uno stato di lucidità e non in preda a una crisi di follia”.
Il proiettile non colpisce il cuore e Vincent torna all’alberghetto con le proprie gambe. I locatori, coniugi Ravoux, si accorgono della camicia imbisteccata di sangue e della ferita. Chiamano il dottor Paul Gachet che afferma di non poter operare chirurgicamente e fascia soltanto il torace di Vincent. La mattina dopo accorre da Parigi il fratello Theo e trova Vincent sdraiato che sta fumando la pipa. Theo si stende accanto a Vincent e per 20 ore i due parlano, parlano, parlano…
All’alba del 29 luglio Vincent si addormenta con la guancia scavata sul cuneo della spalla di Theo. Lievemente passa ad altra vita.
In quella mia giornata ad Auvers-sur-Oise visito il cimitero che accoglie la sepoltura congiunta di Vincent e Theo. La tomba sembra il letto su cui i fratelli hanno trascorso il tempo ultimo di Vincent. Le lapidi sono adese al muro che fa da capezzale, l’edera simula una coperta di un verde ombroso. (Theo muore appena sei mesi dopo Vincent).
Mi chino a sfregare tra le dita una foglia carnosa di quell’edera, come per evocare un contatto coi tumulati.
La targa commemorativa ricorda che Vincent vive solo 37 anni…..……ma 37 anni bastano a Raffaello Sanzio per divenire Raffaello, a Francesco Maria Mazzola per consacrarsi Parmigianino, a Henri de Toulouse-Lautrec Monfà per imporsi come Toulouse-Lautrec, a Vincent per essere il meraviglioso Van Gogh.
Carlo Maria Milazzo