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Il diavolo di Heidelberg

N. 99- Aprile 2025

 

 

 

Il diavolo di Heidelberg

Quanto costa la vostra anima? Quale offerta deve fare il diavolo per comprarvela?

Volete scambiarla con il codice matematico con cui l’universo si snocciola continuamente? Volete barattarla con una storia con Elena di Troia, con Matteo Berrettini o con Roberto Bolle? Oppure vi basta commutarla con un mucchio di soldi?

Bulgakov taglia la testa al toro: “l’umanità ama il denaro, non importa di cosa sia fatto, di pelle, di carta, di bronzo, d’oro”.

Nel caso sceglieste umanamente il denaro, considerate che l’anima pesa 21 grammi e, se dovete fare un prezzo, tenete conto che per ogni centesimo di kg la cifra richiesta deve essere altissima, diciamo sui 33 trilioni al grammo della moneta più forte.

Al diavolo interessano senz’altro le anime dei venti/trentenni. In un giovane la longevità terrena, e sottolineo terrena, permette al diavolo di usare malvagiamente a lungo di quell’anima tenera. Poi i ragazzi hanno a volte bisogni originali per la cui soddisfazione le diable deve ingegnarsi; e destreggiarsi è fonte di godimento per il diavolo. (Mi contestate che i giovani non hanno desideri originali? Che ne pensate del giapponese Yoru Sumino: “voglio mangiarti il pancreas” / di Tony Effe: “voglio una Glock per fare fuori i miei mostri di notte” / di Jovanotti: “voglio cantare più intonato di Mina”. Ma anche “voglio andare ad Alghero in compagnia di uno straniero”, con mia madre che non lo deve sapere, è cosa semplice per Giuni Russo?)

Per l’anima dei quaranta/cinquantenni il diavolo se la cava con macchina di lusso, Rolex e relax in super resort, set di borse provenienti da pitone reticolato di 8 metri.

Per l’anima dei sessanta/settantenni al diavolo basta una badante ucraina sessualmente attiva.

A 23 anni non mi riesco a laureare. Mi si prospettano solo due strade: farmi prete o darmi all’arte. Il prete è un bagarino all’ingresso del paradiso, per cui opto per l’arte. Scrivo, artisticamente ineccepibile.

Leggo molti libri, che immettono carburante nel cervello.

Tra i personaggi letterari, quello che mi sconfinfera di più è Faust. Di Faust ce ne sono diversi, ma tutti hanno un desiderio profondo per cui metterebbero a repentaglio la propria anima.

Il Faust di Goethe e quello di Cristopher Marlowe hanno l’esigenza di accedere a una dimensione inattingibile, inconoscibile, cui non si può fare a meno di anelare. Questa pretesa è in tedesco STREBEN, cioè continua brama di qualcosa che SUPERI ogni traguardo raggiunto. Enfatizza il Faust goethiano: “Se mai prenderò requie su un letto di pigrizie, sia per me la fine allora. Se mi illudessi di essere gradito a me stesso, sia quello il mio ultimo giorno”.

Il doctor Faustus di Thomas Mann, alias il musicista Adrian Leverkühn, è ossessionato dalla creazione di una musica nuova, tramite quel sistema dodecafonico che verrà messo a punto da Arnold Schönberg: 12 semitoni della scala “cromatica” vivono una condizione di eguaglianza, senza che nessuno possa ripetersi prima della esecuzione di tutti e 12 (alle ortiche la musica tonale con la gerarchia della nota tonica, al rogo la Nona di Beethoven!)

Il demonio offre ai tanti Faust un patto, a volte siglato col sangue, per raggiungere ciò che agognano: mediante una forza satanica il desiderio avrà soddisfazione ma, in cambio, l’anima verrà requisita dalla stessa potenza di Satana. Proponente il patto (STOFFGESCHICHTE), è di solito un diavolaccio di serie B, perenne genietto del Male ma distante dal dominante Satana. Il raccattatore di anime è Mefistofele, abile conversatore e stimolatore del narcisismo altrui. Le anime adescate da Mefisto finiscono in ogni caso nel gorgo di Satana.

Satana in persona si scomoda solo per anime esageratamente pure, praticamente inconquistabili. Con Gesù il Cristo, ad esempio, Satàn s’impegna in 40 giorni di tentazioni nel deserto (Vangelo di Matteo 4, 1-11). Il superdiavolo cita capziosamente frasi estratte dalla Bibbia e Gesù gli risponde con altri passi della Bibbia (ciò fa capire quanto sia difficile discernere tra Bene e Male: secondo l’interpretazione che si dà ai testi sacri si può stare dalla parte di Dio oppure da quella del Maligno).

A 24 anni faccio un viaggetto nel Baden-Württemberg, land della Germania del sud-ovest. È lì che Mefistofele appare per la prima volta nel 1500, nei teatri di piazza o dei burattini. Viso rosso cinabro/camicione rosso cardinalizio/lieve zoppia da piedi caprini imprigionati in stivaletti rosso porpora, Mefisto furbeggia affabile e lusingatore. In loco imperversa pure nei secoli successivi, come testimoniano i tedeschi Spies, Friedrich Müller, Heine, Grabbe, Nikolaus Lenau, Klaus Mann. Anche in tempi recenti qualcuno sostiene di averlo incontrato in queste zone, davanti alla cattedrale color cammello di Friburgo/in un chiosco di puzzolente acqua termale a Baden Baden/in un prato a Lorrach a mungere le mucche viola della Milka/a parlare il dialetto alemannico a Karlsruhe/appoggiato a una Porsche nel centro di Stoccarda.

Sia chiaro, io non vado nel land per imbattermi in Mefisto. Ho veramente una paura fottutissima di qualsiasi diavolo. So che per davvero appena parli del diavolo spuntano le sue corna (ok, ne sto parlando). So, come dice il Faust di Goethe, che del diavolo la gente non s’accorge nemmeno se lui la tiene per il collo. So, come dice Baudelaire, che la più grande astuzia del diavolo è far credere che lui non esista. So quel che sa il mio nonno catanese: “Quannu ‘u diavulu t’accarezza, voli l’anima”.uannu

Io vado perché se uno va ha più strade. E comunque un luogo per cui transitare ce l’ho: è la cittadina di Knittlingen, tre quarti d’ora da Heidelberg. È qui che nasce il primo Faust in carne e ossa della storia. Trattasi del dottor Johann Georg Faust (1480-1540), definito alchimista itinerante, medico guaritore, astrologo sopraffino, praticante di magia (di non so quale colore), memorizzatore dei testi di Platone e Aristotele. Di sicuro riceve una laurea in filosofia nel 1509 all’Università di Heidelberg. Di sicuro il diavolo gli sarebbe servito per una qualsiasi delle sue attività. 

Knittlingen ha un markt circondato da case a graticcio restaurate, i cui legni tendono al rosso scuro. La piazza è serena, luminosa, con la panetteria, il fioraio, il bistrò. Appena fuori dal markt, il cielo si fa grigio, le abitazioni sono scrostate con imposte cadenti, la chiesa ha un inquietante campanile nano e grassoccio. Spero che l’antesignano dei Faust abbia dimorato sulla piazza.

Punto ad Heidelberg, dove prenoto 2 notti in una zimmer. La città ha un’aria gradevole: un quarto dei 120000 abitanti è costituito da studenti universitari. I tavolini dei numerosi bar sono attorniati da ragazzi che mostrano le divise di varie “fratellanze”: a seconda della facoltà frequentata i giovani hanno berretti azzurri bordati di bianco e con piccola visiera/camicie verdi debordanti da maglioncini collegiali/golfini bluette e gonne grigie. Si respira quella spensierata serietà (ossimoro) che si ha solo negli anni accademici.

Ci sono poi tanti passeggini, spinti da papà laureati da poco. Alcuni ragazzotti e alcune fanciulle indossano kilt che si tengono a distanza dalle ginocchia. Professori/professoresse si riconoscono perché parlano in continuazione con chi sta loro accanto.

La Hauptstraße, 2 km di selciato, taglia a metà il nucleo antico e decorre parallela al fiume Neckar, color prugna e tranquillo come un bradipo sotto Xanax. Ogni cinque negozi c’è un cafè distinto da un’insegna in ferro battuto: un drago sputafuoco, un toro con fumo dalle narici, un coccodrillo seduto su un pianoforte, Sigfrido con spada sguainata, un’aquila volante che artiglia una gabbia e anche semplici ovali, blu o neri, che riportano in oro nomi di birre.

Le gioiellerie espongono bracciali e anelli dedicati al principe ranocchio dei Grimm, quello che un bacio di principessa evolve dalla bruttezza anfibia (forse grazie alla bufotenina, sostanza allucinogena spalmata sulla pelle del rospo); poiché l’ideale di bellezza del rospo non è dunque la rospa, i monili presentano, accoppiate, rane smeraldine e corone regali in zirconi.

Le dolcerie esibiscono Gummibär, caramelle gommose di vari colori e dimensioni.

Gli alimentari sono famosi per la vendita di Bärlauch, aglio che se lo mordi è come dare la stura a una cintura di kamikaze.

Un negozio è poi fuori stagione per 11 mesi l’anno, ma ciò non induce alla chiusura: il Käthe Wohlfahrt vende addobbi natalizi senza mai andare in ferie.

La chiesa luterana della Provvidenza è di un bianco neve, ad eccezione dei bordi in arenaria rossiccia del campanile.

L’università è frammentata tra le viuzze laterali di destra.

Su Kommarktplatz, incombe lo Schloss, fiabesca fortezza rosso braciola, raggiungibile in funicolare oppure salendo 350 gradini.

La Hauptstraße termina 200 metri dopo, alla Karlstor, arco di trionfo del 1775.

La prima sera entro in uno schnoodelock, una delle taverne tuttolegno, alle cui pareti sono appese foto e cimeli delle varie “fratellanze”. I tavoli, lunghi e occupati a casaccio, sono totalmente incisi da matricole ed Erasmus-jungs di Heidelberg. La clientela è fatta solo di studenti e docenti.

Prima di prendere posto vado al bancone, dove una cameriera, di quel biondo liscio che avrebbe immortalato Claudia Schiffer, raccoglie le comande. A domanda la ragazza risponde di chiamarsi Margarethe. Un metro e 80, occhi blu da lago a passeggio, guance su cui sono fiorite le rose, braccia candide come piste da sci appena battute. Il corpetto rosso papavero si gonfia e si sgonfia leggermente: la lieve escursione del seno mi avrebbe indotto epilessia ai tempi dei boy-scout. Ordino i Maultasche, ravioli di pasta all’uovo, serviti in brodo, ripieni di carne tritata, spinaci, cipolle, prezzemolo; da bere, birra chiara Helles.

Mi siedo di fronte ad un signore sui 50, che con quell’età è per forza docente. Viso oblungo, stile Urlo di Munch/ricci cespugliosi e spolverati di brina/naso affilato come un serramanico. Occhi grandi da nonna di Cappuccetto Rosso/occhi marroni con un puntino rosso al centro/occhi che sorridono prima della bocca. T-shirt rosso Valentino sotto giacca nera.

-Studente italiano? – mi chiede l’uomo.

-Solo italiano- confesso.

-Italiano anch’io. Insegno all’Università di Milano. Sono qui per tenere un corso di Onomaturgia Taumaturgica- rivela lui.

-Sarebbe a dire? –

-Spiego il potere dei neologismi che curano dalla tossicità di parole ritenute sante-

-Interessante- commento.

-Mi chiamo Nello Feltri-

Margarethe appoggia i miei ravioli senza far tracimare il brodo.

-Dunque non è studente. Quindi è uno scrittore- indovina il professor Feltri.

-Si vede? –

-Un artista vero lo si riconosce tra mille persone. Pare un condannato. Sul suo volto si leggono isolamento ed estraneità, ma anche qualcosa di principesco e di smarrito al contempo- definisce il Feltri che s’informa:

-Il suo nome? –

-Mi firmo Ozzalim, uno pseudonimo che è il cognome turco di un mio amico- rivelo.

-Strano che uno scrittore convinto si ricicli sotto falsa identità- commenta il professore.

Margarethe svassoia al mio interlocutore una fetta di salmone, in pratica uno skate-board rosa. Birra rosso-ruggine. Tra una masticata e l’altra il Nello afferma:

-Se lei è uno scrittore vero, avrà bisogno di un editore vero-

-Perché esistono anche falsi editori? – dubito.

-Un editore vero è quello che porta lo scrittore alla fama. L’editore piccolo e turlupinatore sfrutta l’artista per ricavarne guadagni personali, sempre piuttosto magri-

-Ma, la fama è necessaria all’arte? – questiono.

-Certo. Al giorno d’oggi anche un’opera eccelsa, immortale, può perire nella polvere. Può svanire senza emergere, stracciarsi, nel senso di non lasciare traccia. Libri destinati all’eternità finiscono nei cessi, come carta igienica- asserisce il professore.

Tentenno ma non rinuncio al dialogo:

-Ho sempre pensato che la grande arte abbia in sé la forza per imporsi e restare. Ci sono artisti che hanno vissuto in manicomio, che si sono suicidati giovani, che non hanno avuto pigmalioni, eppure le loro opere sussistono radianti-

Il professore non abbandona di certo l’eloquio:

-Lei ha una visione romantica e demodé dell’arte. Oggi c’è un problema e il problema è che il tempo non è più galantuomo. Il tempo non consacra più a posteriori il consacrabile. Oggi il tempo è umanizzato e dunque imbastardito; se si vuole farlo rigare diritto bisogna raggirarlo-

Sopraggiunge una ragazza color cuba-libre, occhi verdi di chi ha guardato a lungo la foresta amazzonica, capelli neri tirati su e collo ad alto coefficiente di baciabilità (neologismo che dovrebbe piacere al professor Feltri). È fasciata stretta da una stoffa rosso-lava, come se si fosse tutta slogata dalle tette alle caviglie.

-Estefània. Mia studentessa. Brasileira di Manaus- presenta il mio commensale.

-A prima vista si direbbe più taumaturga che onomaturga- giudico spudoratamente.

-Lui è Ozzalim, scrittore più italiano che ottomano- mi presenta Feltri alla scolara.

L’allieva muito bonita dispensa una carezza alla tempia del suo precettore. Gli si siede accanto appoggiandogli la testa all’omero.

-Torniamo alla necessità della celebrità per l’artista- riprende il filo il Feltri.

Non lo faccio parlare e dico la mia:

-Ecco, professore, lei non ritiene che il vero artista proponga incomprensibili frammenti di futuro e che dunque non possa essere compreso da un grande pubblico? Non c’è incompatibilità tra arte e fama? –

-Il vero editore sa vendere il futuro- assicura il Feltri.

-Ma no, il futuro è invendibile- sbotto.

-E le armi di cosiddetta deterrenza? – argomenta il professore.

-Ok, le armi che in futuro servono a fare o a non fare guerre, quelle si vendono-

-Tutto è vendibile, magari con qualche stratagemma- conferma Estèfania che inventa: -Ad esempio, per vendere il nostro Ozzalim, potremmo invogliare il pubblico scrivendo sulla quarta di copertina che lui ha avuto una storia con Amanda Lear e una con Cristiano Malgioglio-

-Tutto è vendibile e/o acquistabile. Addirittura anche l’anima è barattabile- rafforza, sogghignando, il professore.

Non la prendo persa e non mi intimorisco per la menzione dell’anima. Ribadisco:

-A parer mio l’arte del futuro è poco comprensibile, troppo folle e spericolata. La massa dei lettori si compiace di qualcosa che ha già nell’orecchio, di qualcosa già esistente. Il nuovo non convince. La moneta nuova non ha corso. L’arte non può arrivare alla fama-

Feltri fa una smorfia con le labbra a zig zag. Pare perplessa anche Estefània.

Ma il professore replica, altrimenti che professore sarebbe. Etichetta:

-Lei è dunque di quelli che pensano solo alla semina senza curarsi della raccolta-

-Senza semina non nasce niente- sentenzio.

-Ma, dopo aver seminato, chi è che annaffia, chi è che concima, chi è che permette il raccolto? – alza il tono della voce il professore.

Mi si rattrappiscono le mani ma rispondo:

-L’editore vero, suppongo-

-Giusto e mi spingo oltre: l’editore vero permette il raccolto anche al seminatore, il quale ha così a disposizione altri semi da piantare. Senza raccolto non ci sarebbero altri semi-

Margarethe-la cameriera sparecchia i piatti vuoti e mi lancia un’occhiata di chi si sta preoccupando per me.

Il professore tortoreggia con la discepola stragnocca do Brasil.

Io sorseggio la birra pensoso. Mi dico che me la sto un po’ tirando con questa recita dell’artista eroico, originale, ignorato, ermetico al quadrato, sfigato ma bello. Ho 24 anni e, che capperi!, volete che non mi interessi la fama?

Sorbole! Da sette mesi spedisco alcuni scritti agli editori più grossi, probabilmente quelli veri. Non vado mica da un buon tipografo! O dall’editore di avanguardia che in un anno è passato nella retroguardia!

Solo editori famosi!

Mentre apro quotidianamente la cassetta della posta mi domando sempre: “chi si contenderà oggi le mie scritture, Mondadori, Einaudi o Bompiani?”. (In verità la posta mi ha finora portato, ma perché mai?, solo gentilissime lettere di rifiuto).

Il professore mi vede azzannabile. Mi dice:

-A Milano sono lettore per il più grande editore italiano. Sono anche consulente alle pubblicazioni-

-Pertanto? – incalzo.

-Pertanto lei è scrittore e io posso valutare i suoi racconti o romanzi che siano. Lei mi manda gli scritti

e io le faccio sapere- dettaglia il Feltri.

-La ringrazio-

Il professore sogghigna di nuovo.

-Però, io non lavoro mai inutilmente. Io aborro prodigarmi a vuoto. Per cui facciamo un contrattino-

Protrudo il labbro superiore finché tocca il naso.

Feltri illustra:

-Stabiliamo per iscritto che, qualora giudicassi idonea alla stampa la sua opera, lei si impegna a cedere al grande editore di Milano tutti i diritti-

-Diritti d’autore? –

-Quelli sono una banalità. Diciamo piuttosto che lei concede i diritti sulla sua creatività- precisa il professore.

-Ma come farò poi a essere creativo avendo consegnato la mia creatività? – contesto.

-Perbacco, ci sarà la fama con gli altri semi! – urla il professore.

Estefània tira fuori un quadernino dalla tasca della giacca del Feltri. Segretarieggia (neologismo):

-Possiamo scriverlo qui il contrattino-

Il professore annuisce, mentre Margarethe si ferma accigliatissima alle sue spalle.

-Visto che siamo in terra di Faust, potreste firmare l’accordo con una goccia di sangue a testa. Sarebbe molto scenografico- propone la studentessa brasileira.

-Perché no- approva il Feltri e correda: -Una firma con l’inchiostro si può sbiadire, imitare, falsificare. Il sangue non scompare mai-

La parola sangue, udita due volte, mi fa l’effetto di un doppio ceffone risvegliatore.

-Mi sento che mi sto gio-can-do l’a-ni-ma- sillabo.

-E senti bene- convalida Margarethe.

La cameriera bionda afferra un boccale dal tavolo e lo sbatte addosso al Feltri, con forza tutta tedesca. Glielo picchia sulla schiena, sul braccio, sulla nuca.

-Geh weg, du verdammter Taufel- grida e tira Feltri per la giacca, costringendolo ad alzarsi.

– Schlimme Scheiße, raus- persevera Margarethe e assesta al professore cazzotti al petto e alla mandibola, come un pugile professionista.

La cameriera passa alla gomitata nel collo e poi alla pedata nei testicoli.

Il professore si piega.

Margarethe mi dice col moto ondoso negli occhi-lago: -Gli distruggo il sangue-

Quindi calcia con la classe di Beckenbauer il culo del professore. Dopodiché lo spintona all’uscita che il Feltri imbocca barcollando.

Margarethe si siede a riprendere fiato.

Estefània è sparita.

Dopo due minuti la cameriera mi fissa e mi intima:

-Non fare più lo stupido. Non farlo più in tutta la tua vita-

Informo che a 25 anni finisco di scrivere “Faust 2002”, stella-diamante nella letteratura del ‘900. Va da sé che l’opera non abbia mai lontanamente sfiorato la fama.

Carlo Maria Milazzo

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