Idra, svago e stravaganza
Dalla prima periferia di Atene al Pireo è tutta un’accozzaglia di casette e sassi color crema, avvolti da polvere e umidità sottile come un velo da sposa. È così anche nel 1939 quando, un mattino d’autunno, Henry Miller va al più grande porto greco.
L’autore di Tropico del Cancro ha appuntamento con Giorgios Katsimbalis e con Giorgios Seferis, poeti e scrittori. I tre prendono un poderoso battello che quotidianamente approda in sequenza a tre isole del golfo Saronico, specchio di mare che sciaguatta davanti alla capitale ellenica.
La triade letteraria ha in programma un ritiro d’amicizia/d’arte/d’anima in tumultuosa pace (yes, un ossimoro). Ricordate Dante e il suo desiderio di stare insieme ai compagni? Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io/fossimo presi per incantamento/e messi in un vasel, ch’ad ogni vento/per mare andasse al voler vostro e mio. Ecco, spostarsi in questo modo: un incanto comune, una magia piacevolissima a bordo di un vascello che vada dove si vuole andare.
La motonave attracca a Idra verso le 3 del pomeriggio. Il tris dei maestri di penna scende. Il paese di Idra è raccolto ad anfiteatro intorno al porto, con case cubiche d’un bianco ripassato a calce ogni giorno. Svetta il campanile della chiesa ortodossa. La montagna grigio-scura incombe alle spalle: gradinate immacolate la incidono per giungere alle abitazioni più alte. L’azzurro-viola del mare fa da base-contrasto al biancore.
La luce è intensa ma non invadente, magnifica per un pittore. Questa luce è una benedizione per chi arriva da Atene, dove l’Acropoli rimanda un riflesso abbacinante che costringe ad abbassare gli occhi.
Scrive Miller ne Il Colosso di Marussi: “Idra è una roccia che sorge dall’acqua come un’enorme pagnotta pietrificata. È il pane mutato in sasso che l’artista riceve a compenso delle sue fatiche quando scorge la terra promessa. (In Grecia le rocce sono eloquenti: gli uomini possono morire ma le rocce mai. In un posto come Idra si sa che un uomo, quando muore, diventa parte della sua roccia nativa)”.
Nel ’39 l’isola è abitata per il 70% da famiglie di pescatori, poi da due pastori con una ventina di capre, poi da unità per singoli mestieri: il ristoratore, il cameriere, il medico, il postino, la lavandaia, il pope, lo spazzino…… Non c’è elettricità e si usano lampade a cherosene. Non c’è acqua corrente. Non ci sono i fili del telefono. Come dice Miller, “si può buttare via la bussola, che non serve in un luogo dove ci si può muovere verso la creazione”.
Henry Miller prende dimora presso il barbiere e sua moglie, in una piazzetta interna ombreggiata da un eucalipto esuberante. Ha a disposizione un salotto, simile a quello delle navi per passeggeri ricchi, e una stanza piccola che sembra una segreta arredata da un pirata capriccioso (cassapanca-forziere pingue di dobloni, letto sormontato da reti da pesca a protezione di gechi tuffatori, armadietto con un teschio intarsiato, pesci palla impagliati agganciati alle pareti, due scimitarre incrociate appese alla porta).
I locatari hanno una figlia, bella, geneticamente discendente da una Cariatide dell’Eretteo. Capelli neri e grossi intrecciati come una gomena, occhi da Irene Papas, zigomi alti, seni marmorei sotto cotone aderente come cellophane. Miller sostiene che il sesso sia una delle 9 cause che ti richiamano alla reincarnazione: non può non averci provato con la ragazza.
Kalimbakis e Seferis alloggiano sulla punta in cui termina (o comincia) l’insenatura portuale: casa con terrazzino su cui fumare in faccia al mare.
I tre poetanti si ritrovano ogni pomeriggio alla taverna sul porto: tavolino all’aperto sotto una tettoia di frasche. Alle 3 getta l’ancora la nave che scarica posta, casse di alimenti, persone di ritorno da brevi lavori ad Atene, un turista o al massimo due.
Miller ha occhi sfolgoranti, sorriso da croupier (educato ma che se ne fotte dei soldi dei giocatori). I bicipiti e i pettorali sotto la maglietta bianca sono da pugile di peso welter. Calvizie largamente vincente.
Kalimbakis è un gigante alla Primo Carnera, con due faraglioni per cosce. Occhi da pantera in punta. Quando ride, la bocca spalancata sembra quella di uno squalo col verme solitario.
Seferis, futuro premio Nobel, ha capelli lisci da scolaretto. La faccia è da topo furbo che evita le trappole.
I tre parlano per ore: raccontano aneddoti, citano da libri che hanno letto, spettegolano di editori/critici/altri sedicenti scrittori. Inventano storielle, per allenare la fantasia. Bevono ouzo. Cenano presto, lì alla taverna: senza lampadine bisogna sfruttare, finché c’è, la luce solare. Mangiano pesce grigliato/agnello al forno/souvlaki/feta/pomodori/cipolle. Sbocconcellano pita. Innaffiano il pasto serale con retsina, vino rosato aromatizzato da resina amarognola.
Ogni tanto qualcuno si accomoda al tavolino dei tre e s’inserisce nelle conversazioni.
Ad esempio, un tardo pomeriggio si siede il barbiere che affitta a Miller. Il figaro isolano sostiene che, prendendo atto del tempo quasi sempre soleggiato, Esopo abbia composto a Idra La scommessa tra Sole e Vento.
L’antico favolista greco narra che Sole e Vento si sfidano a chi riuscirà a far togliere il mantello a un viaggiatore di passaggio. Chi perde dovrà smammare dal luogo della tenzone.
Il Vento soffia forte (per capirci, come quello in cui sta arrivando Mary Poppins, come la bora gelida che fa venire dubbi ai lampioni sulla resistenza, come un grecale che ha più nodi di un tappeto persiano).
Il Vento strappa il cappello al viaggiatore ma non gli sfila il mantello, in cui l’uomo si stringe stretto per non morire di freddo.
Il Sole scalda bello carico (per capirci, come una stella dopata, come il forno di una fonderia gigante, come il sole che rinuncia a baciare i belli perché li ustionerebbe).
Il viaggiatore sudato si cava il mantello e poi anche le maglie.
La morale? La persuasione è superiore alla violenza.
Il barbiere dice che a Idra il Sole ha stravinto. Il Vento se n’è andato, ma qualche volte ritorna, memore della vecchia sconfitta. Ricompare imbufalito, brutale, irrefrenabile. E lo accompagna una pioggia tirata a secchiate direttamente da Giove Pluvio.
Un’altra volta si unisce ai tre compari il fornaio, che racconta di un pescatore caduto da un peschereccio durante un fortunale e dato per disperso. Dopo una settimana dal mancato ritorno si vede camminare sulle acque del porto di Idra una Madonna con l’abituale mantello blu e un impronosticabile berretto da marinaio. Regge sugli avambracci, come il Cristo morto, il corpo del pescatore scomparso.
La Madonna adagia il fardello umano sul molo. Poi volta le spalle e se ne va, sempre andando a spasso sul pelo del mare.
Accorre il medico che pratica massaggio cardiaco e respirazione bocca a bocca. Il pescatore sputa un fiotto salato, riapre gli occhi e poi si mette a sedere a gambe incrociate. Il dottore gli controlla le pupille, la lingua, il polso. Poi lo bacia in fronte e urla: -È sano come un pesce! –
La prima morale: come annota Vincent Van Gogh, “i pescatori sanno che il mare è pericoloso e le tempeste terribili, ma non hanno mai considerato questi pericoli ragioni sufficienti per rimanere a terra”.
La seconda morale: la Madonna è una ONG perpetua, attiva ininterrottamente.
Un’altra volta ancora, la quarta sedia del tavolo di taverna viene occupata dal merciaio, che parla di un’attrice ateniese solita trascorrere ogni anno una piccola vacanza a Idra. La donna di spettacolo ha capelli scuri che dalla riga centrale si dividono in due matasse spesse/occhi ammandorlati di fattura orientale/naso greco al 100%. Porta vestiti leggeri con scollatura a trapezio occupata dagli emisferi superiori delle tette e da un collier di perle. (Potrebbe trattarsi di Katina Paxinou, nata al Pireo nel dicembre 1900 e futuro premio Oscar).
Il merciaio dice che, quando si siede alla taverna, la donna accavalla le gambe scoprendo una rotula e il dito di pelle superiore. Il negoziante afferma di aver perduto almeno tre diottrie a forza di fissare quei 2 centimetri di derma sopra il ginocchio.
Il merciaio svela di non essere la sola vittima dell’attrazione fatale. Quando la probabile Katina passeggia sul molo, un delfino esce con metà corpo dall’acqua e comincia a fischiare e a ridere col rumore di patate che friggono. Il cetaceo fa di tutto per mettersi in mostra. Spicca un salto e ricade con un secco plof. Spruzza dallo sfiatatoio a mo’ di fontana. Fa il verso del tricche tracche. Percuote l’acqua con la coda.
Allorché l’attrice ritorna sulla terraferma il mammifero segue la nave che la porta indietro. A volte il delfino è avvistato mentre zompa davanti alla spiaggia ateniese di Paleo Falirou, di sicuro speranzoso che la sua Katina sia tra i bagnanti o tra i frequentatori di quel litorale.
Pure qui c’è una morale? Suscitare desiderio è un potere.
Nei pressi della Pasqua scorsa, decido di passare 3 giorni/2 notti a Idra. Chissà se riesco a immedesimarmi nell’entropia narrativa di Henry Miller? O chissà se Kalimbakis e Seferis hanno lasciato molecole liriche a galleggiare nell’aria?
O chissà se trovo un po’ di polvere d’oro, caduta dalla chitarra di Leonard Cohen? Il cantautore dalla voce di rasoio arrugginito vive a Idra dal 1960 al ’67. Un mattino vede sul molo Marianne, ragazza madre norvegese, abbandonata sull’isola dal marito come un’Arianna da un Teseo stronzo. Rimane folgorato e Marianne diventa per 7 anni la sua compagna, la sua musa, la sua complice, la prima ascoltatrice delle sue canzoni e delle sue poesie.
(La frase che preferisco di Leonard Cohen: “c’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce”)
Al Pireo salgo sulla nave che fa rotta verso le isole Saroniche. La prima fermata è a Egina, spiagge fulve/alberi nudi di pistacchi che sembrano mazzi di crocifissi/rovine di un tempio greco in cima alla collina ammantata di pinete.
La seconda sosta è a Poros, staccata di soli 400 metri dal Peloponneso. Poros verdeggia di limoneti. Eccedono gelsomini e bouganville. Le case che affacciano sul mare sono color isabella con imposte tutte blu. Il mercato ittico pullula di sardine, triglie, orate.
La terza meta, alle 3 pomeridiane, è Idra, bianchissima come ai tempi di Miller. Niente vegetazione. Monte Eros brullo e mozzato. Barche in riga contro il molo. La seicentesca chiesa della Panagìa ha un sapore veneziano. Bandita la circolazione di veicoli: ci si sposta soltanto a piedi oppure a dorso di mulo o asino. Se si vuole andare a Molos, dall’altra parte dell’isola, si può solo prendere la barca. Di nuovo, rispetto al 1939, ci sono due gioiellerie che vendono collane e orecchini di onice blu.
Dalle 11 mattutine mi apposto al tavolo in smalto azzurro del cafè/ristorante/taverna Isalos. Da lì tengo d’occhio la baia portuale. Trinco una birra Alfa, lager bionda dal retrogusto erbaceo. All’una mi faccio servire una moussaka (delizia di melanzane) e Htapodi xudato (insalata di polpo). Annaffio con retsina. Alle 14 chiedo un espresso.
Nulla da dichiarare sul mio taccuino d’appunti. A parte una rimembranza da Rimbaud: “l’Eternità è il mare mischiato al sole”.
Poi, alle 3, ormeggia la nave giornaliera. Scendono una cinquantina di turisti (quasi tutti risaliranno sulla stessa nave alla ripartenza). Tra gli sbarcati spicca un ragazzo dai capelli ricciuti, metà gialli e metà verdi. Sulle spalle porta una gerla.
Il giovanotto serpeggia tra i tavoli del mio Isalos cafè. Ai clienti seduti offre oggetti che trae dal cesto da befana: una collana di pietruzze violette, una pipa con fornellino panciuto, un bambolotto in abito da sirtaki, calamite da frigo, t-shirt imbustate…. Qualcuno gli allunga euro-banconote, quelle di più basso valore.
Il tipo viene anche da me. Alto un metro e 83/iridi grigie con cerchietto arancio intorno alle pupille/sopracciglia così vicine che ci si può incastrare una moneta/unghie lunghe da arpia onoraria/camicia che è un trionfo di papaveri e spighe/pantaloni amaranto infilati in stivali senza tacco/fibbia uguale a uno zero d’oro.
Io gli starei per dire: -Non voglio niente-, ma lui sorride con denti smaglianti e mi assicura: -I have something for you-
Io starei ancora per dire: -Grazie, non prendo nulla-, ma lui rovista nella gerla e correda: -Just a moment-
Poi appoggia sul tavolo….
1 – Un berretto da marinaio, bianco con visiera blu ricamata in giallo
2 – Un piccolo delfino grigio di peluche
-What do you say? – chiede il ragazzo.
Gli allungo una banconota da venti.
È un compenso scarso, giusto, esagerato?
Non lo so.
So che, di certo, un’ispirazione non ha prezzo.
Carlo Maria Milazzo