Giorni di magro artusiani

L’astinenza dalle carni consentiva tuttavia di mangiare lontra, tartaruga, folaga e piviere. Le ragioni della strana norma
Volge ormai al termine l’anno del bicentenario della nascita di Pellegrino Artusi (4 agosto 1820), padre della cucina italiana. Bicentenario sfortunato, data la pandemia. Comunque, nonostante il Covid, è stato possibile organizzare qualche manifestazione commemorativa, ed è quantomeno doveroso, dal punto di vista culturale, ricordare anche qui questo particolare Autore.
In breve la storia del “nostro”. Nacque a Forlimpopoli, da Teresa Giunchi e Agostino, famiglia di commercianti. Entrò a sua volta nell’attività di famiglia, parallelamente istruendosi quasi da autodidatta, viaggiando e leggendo i classici. Della sua vita è nota la vicenda che diede una svolta importante al destino della famiglia: l’irruzione in paese della famigerata banda del Passatore. Nel gennaio 1851, mentre buona parte degli abitanti si trovavano all’interno del teatro del paese per assistere ad una rappresentazione, Stefano Pelloni e i suoi briganti fecero irruzione.
Gli spettatori vennero prima rapinati sul posto, poi in parte furono condotti nelle proprie abitazioni e in quelle di conoscenti, ove i banditi diedero seguito alle ruberie. Anche la casa della famiglia di Pellegrino Artusi subì identica sorte. Purtroppo non solo, perché oltre al furto venne compiuto un atto di violenza nei confronti di una delle sorelle di Pellegrino, Gertrude, che rimase mentalmente segnata dal terribile shock, finendo la propria esistenza in manicomio qualche anno dopo. In quello stesso anno la famiglia lasciò il paese trasferendosi a Firenze. Là Pellegrino proseguì l’attività commerciale della famiglia, e là morì nel 1911 a 91 anni. Non dimenticò mai però il paese d’origine. Per la cronaca, il Passatore venne ucciso a Russi, nei pressi di Ravenna, pochi mesi dopo i fatti di Forlimpopoli, il 23 marzo 1851.
Memorie storiche tra le ricette
Sotto l’aspetto editoriale gastronomico, Artusi fu Autore non solo del fortunato e tuttora diffuso “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. Firmò infatti (e pubblicò a proprie spese) anche altre opere, che come egli stesso ammise riscossero poco successo. Alla fine però le fatiche vennero ripagate e dal 1891, anno della pubblicazione, nei vent’anni successivi l’Autore ebbe a curare ben quindici edizioni dell’opera, che gli sopravvisse raggiungendo la trentaduesima edizione nel 1931. L’opera si è talmente diffusa fra il pubblico, che nel parlare comune ha assunto da allora il cognome dell’Autore in sostituzione del titolo vero e proprio. E’ peraltro da notare come Artusi, non solo gastronomo ma anche uomo di cultura, nella presentazione di alcune ricette riporti memorie storiche, riflessioni e aneddoti, e indicazioni igieniche sul modo di preparare i cibi e sul non eccedere con il sale. Sulla carne, per esempio, si sofferma sulla consuetudine della frollatura in uso al suo tempo, che presentava alcuni aspetti tradizionali non del tutto condivisibili nell’ottica della buona salute.
Ma dal punto di vista delle memorie storiche tradotte in gastronomia, una ricetta merita una lettura particolare dato il risvolto storico e il riverbero sociale-religioso: folaghe in umido (ricetta n. 275). La raccolta artusiana contiene diverse ricette di cacciagione, alimento storicamente presente sia sulle tavole povere che su quelle ricche, pur con motivazioni differenti. Le prime come componente alternativa dell’alimentazione quotidiana, le seconde con un senso di opulenza presso la borghesia e con senso di opulenza e potenza presso le varie corti italiane (tradizionalmente dedite alla caccia), nonché presso l’alto Clero (in determinati casi e con determinati esponenti anch’esso dedito, più o meno episodicamente, alla caccia). Artusi dunque propone la folaga in umido, accompagnando il lettore lungo un percorso che vide tale uccello selvatico cambiare idealmente pelle, per onorare i giorni di vigilia prescritti dalla Chiesa in un contesto di opportunità sociale-religiosa-economica.
La folaga, “uccello pesce”
Diverse sono le fonti che riportano alle origini della suddetta disposizione, la quale prese avvio dal concilio di Nicea del 325 d. C., durante il quale venne fissato un periodo di digiuno di quaranta giorni (la Quaresima, a simboleggiare i quaranta giorni trascorsi da Cristo nel deserto) come preparazione alla Pasqua. Nelle varie astinenze previste dal precetto entrò anche quella di mangiare carne, perché il suo consumo era considerato un tramite per la forza fisica (specie per il guerriero) e per la forza sessuale. Un divieto di forte valenza simbolica. Il Calendario liturgico, da quel momento in poi, obbligò quindi i cristiani ad osservare la distinzione tra giorni di “grasso” e giorni di “magro”. Il precetto però, in non pochi casi, cozzava con la possibilità di approvvigionarsi di cibo consentito da parte di una certa fascia della popolazione. La Chiesa venne dunque incontro alle “difficoltà” alimentari, consentendo l’uso non solo del pesce ma anche della carne di animali che vivevano a stretto contatto con l’acqua (tartaruga, lontra) e di uccelli acquatici (piviere, folaga, oca), assimilati in qualche modo al pesce. La folaga venne dunque considerata “uccello-pesce” perché si nutriva (è vero in parte) di pesce ma anche perché in qualche modo ne ricordava il gusto, e quindi ammessa sulla tavola nei giorni di vigilia, nonostante fosse materialmente carne. E così la presenta Artusi: “La folaga (Fulica Atra) si potrebbe chiamare uccello-pesce, visto che la Chiesa permette di cibarsene ne’ giorni magri senza infrangere il precetto”. La liberatoria ecclesiastica fece ovviamente il giro del mondo cattolico. Ne parla anche il famoso Alessandro Dumas padre, nel suo “Grande dizionario di cucina” del 1870, che sentenzia: “Quest’uccello tutti sanno che è qualificato tra gli alimenti magri (ricorda il pesce) e possiede un certo gusto selvatico e marino che nessun condimento può dominare”. Quest’ultimo dettaglio non fu cosa di poco conto, e chissà come avranno fatto allora a rendere il gusto accettabile, ma bisogna dire che la fame è sempre stata un buon condimento.
Sia come sia, il nostro Artusi, evidentemente interessato ad affrontare il problema di rendere gradevole al palato una pietanza basata su un “ingrediente” dal gusto non ritenuto fra i più raffinati, quantunque spesso presente sulle tavole (la folaga era ed è tuttora un selvatico molto diffuso in natura e spesso portato in cucina), dopo appropriati esperimenti culinari licenziò la ricetta n. 275: “Prendiamo ad esempio quattro folaghe e, dopo averle pelate e strinate alla fiamma per tor via la gran caluggine che hanno (evidentemente Artusi spennava solamente, lasciando la pelle, ma ormai è consuetudine e buona norma spellare la folaga per ridurre il gusto di selvatico -n.d.a.), vuotatele e lavatele bene… tagliatele in quattro parti gettando via la testa, le zampe e le punte delle ali; indi tenetele in infusione nell’aceto per un’ora e dopo lavatele diverse volte nell’acqua fresca. Dei fegatini non me ne sono servito; ma le cipolle (gli stomaci -n.d.a.), che sono grosse e muscolose come quelle della gallina, dopo averle vuotate, lavate e tagliate in quattro pezzi, le ho messe pure nell’infusione. Ora, fate un battuto, tritato fine, con una grossa cipolla e tutti gli odori in proporzione, cioè sedano, carota e prezzemolo, e mettetelo al fuoco con grammi 80 di burro, e nello stesso tempo le folaghe e i ventrigli condendole con sale, pepe e odore di spezie. Quando saranno asciutte bagnatele con sugo di pomodoro o conserva sciolta in acqua abbondante per cuocerle e perché vi resti molto intinto. Cotte che sieno, passate il sugo e in questo unite un petto e mezzo di folaga tritato fine e altri grammi 40 di burro, per condire con esso e con parmigiano tre uova di pappardelle che pel loro gusto particolare saranno lodate. Le folaghe, con alquanto del loro intinto, servitele dopo come piatto di companatico che non saranno da disprezzarsi”. Provare per credere.
Roberto Aguzzoni