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Belgrado, storie vere per davvero

N. 104- Ottobre 2025

 

 

 

 

Belgrado, storie vere per davvero

Ulica Knez Mihailova è una via pedonale lunga anche per il passo di un ciclope. A Belgrado parte dalla fortezza del Kalemegdan, che scruta come un’aquila infallibile la maestosa confluenza di Sava e Danubio. Poi la strada si spara rettilinea fino a Piazza della Repubblica, ariosa, col Teatro nazionale/il museo statale serbo/la statua equestre di Mihailo III° (scolpita dal ravennate Enrico Pazzi, proprio quello del Dante irritato davanti Santa Croce a Firenze).

Percorro la Ulica un giorno di inizio giugno, non freddo e non caldo, da non sapere come vestirsi. Cielo coltivato a fiordalisi.

AL civico 56 si impone la Biblioteca della città, solenne e robusta, stile romantico.

Al civico 53 seduce con piglio viennese l’Accademia delle Belle Arti.

I civici 46, 48 e 50 sono affibbiati all’Isolato degli alloggi urbani, tre unità del 1869. La casa Veljko Savić è un immobile residenziale e sede di botteghe al pian terreno. La casa Kristina Mehana è nata come albergo di proprietà dei fratelli Petar e Branko Krstić, architetti e urbanisti. La casa Hristina Kumandudi ospita a lungo la Banca franco-serba. Le costruzioni fondono elementi di gusto rinascimentale e di estetica romantica.

Il civico 35 è attribuito all’Accademia delle scienze e delle arti, che raccoglie 1.300.000 volumi. Al di là delle vetrine torreggiano pile di libri, si snodano scale riempite di pubblicazioni, si sporgono scaffalature onuste di stampati: per me è il giardino delle delizie sotto vetro.

Davanti al 31 si può sbattere contro la Fontana Delijska česma, sorta di battistero coperto.

La stragrande maggioranza dei palazzi è di un bianco appena ingrigito, come il cotone lavato più volte in lavatrice (Belgrado significa del resto “Città bianca”).

C’è vita sulla Ulica. “Vasche” di ragazzi a passeggio, immancabili turisti italiani, bancarelle che vendono collane/saponi/liquori/magliette. Musicisti eterogenei colonizzano ognuno un rettangolino di strada. Una postazione è occupata da un tipo alla Lucio Corsi, biacca sul viso, vestito come un incidente tra camion della Caritas, macedonia di blues/folk/rock frullata da un pianoforte verticale. Un altro spazio è presieduto da uno schitarratore elettrico, fasciato di nero come Black Manta, genere heavy metal suicido-esaltante. E non può mancare il clone della Wedding and Funeral band: trombe e tromboni alimentati da polmoni che quando inspirano trattengono tutta la notte/grancassa percossa come un leviatano da ammazzare/clarinetti della bacheca di Lucio Dalla/fisarmonica rubata a un gitano (ma non sono gli zingari che rubano?) /chitarra acustica/sax che spinge come non ci fosse un domani.

Ci sono tutti i negozi da shopping accessibile: Zara, Calzedonia, Kiko, Pandora, H&M, Replay jeans, Lacoste, L’Occitane en Provence, Waikiki.

Ogni 10 finestre sventola una bandiera serba.

Ho appuntamento con Mirko al ristorante Monument, sull’angolo terminale della Ulica. Mirko è un 72enne che, negli ultimi 5 giorni, mi ha fatto da guida per monasteri nascosti da querce e per castelli in cui convivono principessa/ponte levatoio/drago. Come delle canzoni di Mahmood, della lingua serba non comprendo niente: troppe consonanti che si allacciano, improvvise vocali che si slungano (e il tono di pronuncia del serbo sembra rimproverare il tuo non capire).

Arrivo al rendez-vous per primo e ne approfitto per salutare un idolo già seduto a un tavolino sotto il tendone esterno del Monument. Milos Teodosic! Gli dico che vengo da Bologna, gli stringo la mano anche se vorrei baciargliela come al Papa. Milos, il mago di Vàljevo nella definizione di tutti i cronisti (Vàljevo perché sua città natale a 40 km da Belgrado; mago perché chiunque vorrebbe vederlo giocare all’infinito, mago perché lui fa canestro anche con una palla con cacciavite conficcato che la sgonfia, mago perché converte gli scettici/gli ostili/i tifosi avversari).

Milos, 4 anni a Bologna, gli ultimi due a Belgrado, sponda Stella Rossa. Ritiratosi da poco, abita qui, in centro, con moglie e due figli.

Milos, il Van Gogh dei canestri, definizione di Ettore Messina, allenatore dal palmarès obeso. Milos, il miglior passatore di palla della storia del basket: assist a iosa in ogni partita, molti irreali, sganciati con anticipi impronosticabili. Milos, il tiratore dei palloni decisivi, parabola a cupola del Brunelleschi, ciuff da tre alla sirena, spettatori tutti in piedi, paonazzi come galline nel pollaio che facciano contemporaneamente l’uovo.

Milos non è invecchiato dai tempi Virtus: capelli neri, un po’ lunghi su coppino e basette, barba non rasata e soprattutto quello sguardo altrove. Occhi che non guardano ciò che sta accadendo e sono in giro per il Chissàdove; anche nell’eseguire un tiro libero, Teodosic non fissa il canestro: effettua il suo rito kabuki di lisciarsi la tempia, poi la guancia e dopo lascia partire la sfera con svogliatezza (ciuff, naturalmente).

Milos è assieme a un amico oltre i 2 metri, le cui gambe finiscono sotto il tavolo di fianco. Hanno davanti un cremlino di bicchieri

vuoti. A Bologna sanno che Teodosic sbevucchia e fuma anche parecchio. Ma gli dèi sono immuni dalle droghe che intossicano i comuni mortali.

-Tutto quel che mangi e bevi va sul mio conto. Sei mio ospite- mi offre Milos.

Pure la fama di generoso è nota a Basket city.

Ecco Mirko, il cui cognome non so trascrivere poiché sembra una parola trovata a scarabeo da un ubriaco. Mirko ha capelli grigi e grossi, pettinati con una riga che pare scavata con un cucchiaino. Sopracciglia come tettoie di latta. Occhi marroni saettanti. Baffoni dietro i quali possono nidificare due rondini. Pancia molle sulla cinghia delle braghe azzurre. Gli mancano due dita della mano sinistra.

Il tendone del ristorante è aperto sul davanti. Appena seduti, Mirko mi fa notare un falco in cima a un vicino lampione; mi dice:

-Il falco rappresenta l’aristocrazia dei cieli. Se un falco ti guarda a lungo la tua sfortuna viene cancellata. Il falco è più forte della sfortuna e, visto che fa paura anche agli avvoltoi, diventa il protettore di chi sta nel raggio della sua vista. Pure galli, tacchini e pavoni che il falco potrebbe attaccare, se stanno insieme su un prato vigilato dal rapace, vivono in un’oasi di sicurezza-

-Il falco mi sta proteggendo- deduco.

Mirko annuisce.

Ordino goulash di manzo, indicandolo alla diafana cameriera col dito sul menu. Chiedo birra bionda Jelen, alla spina.

-Sai come cominciano le guerre? – domanda Mirko.

-Egoismo debordante- suppongo.

Prima storia raccontata da Mirko

A Buskopan, villaggio poco fuori Belgrado non piove da tempo. Il pope della chiesa ortodossa prega Dio perché faccia scendere un po’ d’acqua, ma il cielo resta sgombro da nubi.

Un giorno i contadini si riuniscono sul piazzale della chiesa e rimproverano al pope di non saper rivolgere a Dio le suppliche giuste. Alzano la voce e stanno per picchiare il religioso.

Il pope implora qualche ora di preghiera supplementare. Quindi affronta gli abitanti del paese:

-Ho una notizia da darvi. Poco fa, dall’alto dei cieli, mi è stato consigliato di chiedere direttamente a voi quale giorno preferite per la pioggia. Nella giornata da voi scelta Dio manderà tanta pioggia da bastare per tutto l’anno. I vostri campi non avranno più sete-

Dal contado partono urla di gioia. Qualcuno danza, qualcuno canta.

A un tratto il pope impone il silenzio con un fischio a quattro dita in bocca.

-Quale giorno decidete per la pioggia? – incalza.

Prende la parola Goran, il capovillaggio:

-Io direi subito. Facciamo domani, lunedì-

Il prete obbietta:

-Domani no perché ho convocato i braccianti per la sarchiatura del mio appezzamento di terra-

-Se è così, spostiamo a martedì- suggerisce il capovillaggio.

Svetta la voce di Luka:

-Martedì no. Ho appena steso il grano sull’aia, per farlo essiccare. La pioggia me lo farebbe marcire-

-Va bene, passiamo a mercoledì- concilia Goran.

Grida Stefan:

-Mercoledì no! Ho la festa del santo protettore di famiglia, all’aperto, e se gli invitati si bagnassero sarebbe un vero peccato-

-Optiamo per giovedì- propone necessariamente il capovillaggio.

Si oppone Nikola:

-Giovedì non se ne parla proprio. Ci sono le nozze di mio figlio-

-Va meglio venerdì? – rilancia Goran.

Il superstizioso Dragan respinge:

-Si sa che la pioggia di venerdì porta disgrazia-

-Non resta che sabato- chiude Goran.

E allora insorge Aleksa:

-Sabato devo andare da un mandriano da cui ho comprato due mucche. Tra andata e ritorno sono tre ore di cammino e non voglio morire di fatica nel fango-

Conclude il pope:

-Per questa settimana niente pioggia. Domenica prossima, alla messa mattutina, comunicatemi l’accordo che avrete concordato-

La domenica successiva non viene fornita al prete data utile. Ci sono pretesti per scartare ogni cifra sul calendario.

Per molte altre festività non si propone nessun giorno propizio. Le esigenze individuali posticipano in continuazione il momento X.

E la pioggia a Buskopan rimane latitante.

Ma la storia non finisce qui (Mirko dicit).

Il capovillaggio sostiene che le faccende dei singoli non possano inibire un Dio ben pregato, il quale può allora far piovere sua sponte.

A 11 km sorge Nexium, paesucolo di un centinaio di musulmani, che si sono costruiti una piccola moschea.

Goran, il pope e una delegazione di contadini nerboruti vanno dagli islamici, in un corteo di trattori e carretti (più qualche cavallo). Hanno con sé vecchi fucili e bastoni.

Zafir, l’imam, si piazza davanti alla moschea, con una schiera di inturbantati alle spalle.

Sostiene il pope:

-A Nexium voi pregate un Dio che interferisce col nostro e lo ostacola nel far piovere-

Risponde l’imam:

-Non credo ai dispetti tra un Dio e l’altro. Qualsiasi Dio è al di sopra di uno stupido braccio di ferro-

Poi aggiunge:

-Noi comunque non invochiamo pioggia da Allah. Quando qui piove, viene giù troppa acqua tutta in una volta e i nostri agnelli e i nostri fagioli rischiano di annegare-

Ammette il pope:

-Zafir, forse hai ragione sul patto di non concorrenza tra il mio Dio e il tuo. E di sicuro i tuoi paesani hanno buoni motivi per non volere la pioggia-

L’imam ha comunque un dubbio:

-C’è anche da considerare la comunità di Ketodol, a 11 km da qui. Loro sono cristiani e il loro Dio è magari momentaneamente disallineato dai nostri-

-È possibile- riconosce il pope.

Decide Zafir:

-Andrò a Ketodol, a verificare la situazione-

Zafir e altri due muslim, a dorso d’asino, raggiungono Ketodol. Per sicurezza si portano pistole nascoste sotto i caffetani.

Il parroco del borgo è sul sagrato, affiancato da 4 seminaristi, 5 diaconi e 6 accoliti. Gli dice Zafir:

-Non è che il tuo Dio si sta dimenticando di far piovere sui nostri territori? –

Il parroco replica:

-Il nostro Dio sa che cosa è bene e che cosa è male per i suoi figli terreni-

Deduce l’imam:

-Quindi se non piove è perché per i tuoi uomini è meglio così-

Conferma vagamente il parroco:

-Dovrebbe essere così- Poi confessa:

-Però sono dell’idea che un po’ d’acqua sarebbe necessaria-

-Forse sì- si associa l’imam.

Il parroco si siede sul gradino del sagrato. Domanda:

-Zafir, tra Buskopan, Nexium e Ketodol, qual è il paese con più abitanti? –

-Buskopan- risponde l’imam.

Ragiona il parroco:

-Pertanto sono gli ortodossi di Buskopan a relazionarsi in maggioranza con il loro Dio-

Ragiona pure l’imam:

-Avendo la preponderanza nelle preghiere e nei desiderata a Buskopan hanno forse un vantaggio decisionale-

Chiude il parroco:

-Se non piove la colpa è degli ortodossi-

E qui la storia è in dirittura d’arrivo (Mirko dicit).

Sui villaggi nei dintorni di Belgrado iniziano a cadere bombe e missili. Ben prima della pioggia, che qualche Dio comunque manda.

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Dopo il goulash, buonissimo, Mirko mi chiede:

-Sai chi è permaloso? –

-Chi sta sempre sulla difensiva- suppongo.

-Molte volte stare sulla difensiva è necessario, anche solo per sopravvivere- definisce Mirko.

-Voglio dire che chi è permaloso ha paura che qualcuno scalfisca le sue sicurezze- preciso.

-Di sicuro quel leader sepolto nel mausoleo di Kuca Cveca, qui a Belgrado, è stato permaloso come dici tu- ammette Mirko (Kuca Cveca vuol dire Casa dei Fiori e il tumulato è Josip Broz, meglio noto come Tito).

Come dolce, ordino alla diafana cameriera palacinke, crespella ripiena di marmellata.

Seconda storia raccontata da Mirko

Nel settembre 1979 una Porsche bianca con tettuccio nero sfreccia per le vie di Belgrado. Nessuno in tutta la Jugoslavia possiede una macchina sportiva, capace di accelerazioni violente e di velocità da autodromo. Molti posseggono una Zastava, vettura che pare tamponata da un TIR carico di porfido. La Zastava è per 3/4 identica alla Fiat 128, ma il baule è a culo di ippopotamo.

Il proprietario della supercar tedesca si rivela comunque presto: è Ivko Plecevic, ex tennista, vincitore di tornei e giocatore Davis. Vive a Monaco di Baviera, dove fa il maestro di tennis. Ha guadagnato bene in carriera e si è permesso questa macchina extra-lusso.

Plecevic, tornato nella natia Belgrado per qualche giorno, si reca alla polizia a denunciare il furto della sua Porsche 911 Targa S.

La Porsche imbocca per tre sere i viali larghi della capitale, rombando come un tuono amplificato. Percorre gli stradoni a 200 km/h, sfiorando muri e marciapiedi.

Nei pressi della piazza Slavija il pilota (probabile ladro della macchina) scala le marce e poi, in uno stridore di penumatici che pare un rave di cicale, compie tre volte il giro della rotonda Slavija.

Il quarto giorno i balconi e le finestre sull’itinerario della Porsche, sempre uguale, sono “tutto esaurito”. I curiosi si assiepano in maggioranza attorno alla Slavija, dove lo spettacolo è al culmine.

I lineamenti del guidatore non vengono indovinati perché la velocità li sfuma in una nuvoletta. Il pilota viene subito battezzato “il Fantasma di Belgrado”.

La polizia tenta di affrontare il dissacrante automobilista. La Jugoslavia è un paese di “socialismo reale”, in pratica a regime dittatoriale. Non è che l’ordine possa essere squinternato da un folle su quattro gomme. Non è che si possa prendere in giro a lungo la polizia, magari delegittimandola. E soprattutto non è che si possa far impermalosire l’autocrate Tito, l’irritabile maresciallo (Tito in quei giorni è a Cuba, ma la notizia del pilota sbeffeggiatore gli è senz’altro riferita da un altro despota, libico, al momento alloggiato al Moskva Hotel Belgrade. Il tiranno africano si è portato nel giardino dell’albergo due cammelle, per avere latte fresco tutte le mattine; le due bestiole però si spaventano quando sentono il ruggito della Porsche, e scalciano e defecano in abbondanza).

Il quinto giorno una pattuglia di 6 Zvastava della Milicija locale, forse leggermente truccate, attendono a motore acceso la Porsche all’uscita da piazza Slavija. La macchina germanica esce su due ruote dalla rotonda e poi, schiacciata al suolo, si lascia trascinare dai suoi 204 cavalli. Il cambio ingrana il naturale crescendo.

Le Zastava scodano, i poliziotti tirano le marce fino all’impiccagione. Dopo la quarta ci vorrebbe la miracolosa aggiunta di una quinta, ma niente: i cilindri piangono come bambini abbandonati.

Il sesto giorno le Zastava si fanno trovare in movimento sul Bulevar Revolucije, il vialone che origina dalla Slavija. Con più velocità iniziale la Milicija dovrebbe avvicinarsi al Fantasma ultrarapido. Ma, nel momento clou, la Porsche si dilegua come un ghepardo inseguito da mezza dozzina di facoceri.

Il capo della polizia belgradese, Nemad Maksic, è stizzito. Il Fantasma lo dileggia da Radio Studio B, la stazione più ascoltata nella capitale. Il Fantasma promette altre esibizioni che continueranno a sputtanare l’inefficienza della Milicija.

Maksic si affida allora all’ispettore Dusan Zivkovic, soprannominato Fangio per la sua abilità di driver. Zivkovic possiede di nascosto una Ford Granata che fa sembrare le Zastava delle tartarughe con la marmitta.

Fangio prende la scia della Porsche, derapa con la Ford, taglia le curve passando per aiuole fiorite, pesta l’acceleratore fondendolo alla suola. Per un po’ regge il confronto con il Fantasma e si sporge anche dal finestrino, sparando con una pistola, come nei film americani. Poi la Porsche lo distanzia in progressione.

Maksic passa alle maniere fortissime. Metterà ostacoli insormontabili sul tragitto sempre identico del Fantasma, che non valuta come l’abitudine possa rovinare qualsiasi bellezza, qualsiasi eroismo, qualsiasi nobiltà; l’abitudine uccide lo stupefacente e declassa perfino il coraggio.

Ecco che il decimo giorno dalla comparsa della Porsche Maksic fa inondare di olio la piazza Slavija. Poi comanda di sbarrare la via d’uscita con due filobus.

Purtroppo il bolide made in Germany cade nella trappola, va in testacoda, poi scivola inesorabilmente contro i bus intraversati. Il parabrezza obliquo esplode in una miriade di cristalli.

Il pilota esce comunque illeso dall’incidente. Protetto dalla folla si dilegua, prendendo ancora in contropiede la polizia.

Tuttavia, nei giorni successivi, il Fantasma assume un volto.

Nel nono giorno delle scorribande automobilistiche il fotoreporter Ilija Bogdanovic carica la macchina fotografica col rullino; si apposta a bordo strada poco prima della piazza dei girotondi. Durante la decelerazione imprescindibile della Porsche, scatta cinque foto a ripetizione. Quando Bogdanovic sviluppa i negativi nel suo studio, si accorge dell’impresa: un fotogramma rivela i connotati del Fantasma.

Probabilmente il fotografo è soggetto al dubbio morale: coprire il pilota che ha raccolto tanta simpatia o dare la foto alla polizia che lo identificherà e gli spaccherà le ossa? Beh, il pilota ha fatto il suo lavoro, il fotografo pure e dunque manca sono la polizia a eseguire il proprio dovere. Bogdanovic consegna la foto a Maksic.

Il Fantasma è Vladimir Vasiljevic, detto Vasa, già schedato per furti di macchine. Arrestato, viene condannato a due anni e mezzo di carcere.

Vladimir esce di prigione nel 1982.

Dopo qualche giorno in libertà, il pilota delle sere pazze muore in un incidente, andando fuori strada.

Non ci sono tracce di frenata nel luogo del sinistro.

Tazio Nuvolari sbruffoneggia: -Freni? A cosa servono i freni? –

Ma è innegabile che i freni servano.

La vox populi di Belgrado sostiene che i freni dell’auto di Vasa siano stati manomessi dalla polizia, per vendicarsi definitivamente delle umiliazioni subite.

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La cameriera, sempre quella diafana, ci lascia sul tavolino una bottiglia di rakija, 50 gradi, sorella di una grappa per alpini in festa.

Terzo racconto (personale) di Mirko

Dice Mirko: -Io avrei potuto vivere a Roma. Fare il traduttore, l’interprete. O aprire un locale con cucina serba. A Roma si sta bene: cielo di un azzurro unico, gente che scherza e ride, l’arte che strabocca, il caffè che è un elisir di buona vita. Ma a Roma, come in altre città italiane, ho sempre avuto un suono nella testa, una melodia che mi sono canticchiato spesso, forse per paura di dimenticarla. Quella musica mi ha sempre tirato all’indietro, come un elastico che riporti a Belgrado-

Domando: -Che musica è? –

Mirko: -Si chiama sevdalinka-

Mirko convoca la cameriera diafana. Le fa segno di abbassarsi e le parla all’orecchio.

Dopo due minuti la ragazza torna con un violino (è mancina come Paganini e il diavolo). È affiancata da un cameriere, alto e pure lui pallido, che imbraccia una fisarmonica nera lucida.

Il violino dà il via a un ritmo lento. La fisarmonica lo accelera un po’.

Mirko, in piedi, attacca una canzone che è malinconia pura, l’università della tristezza. È serio come un bimbo che gioca coi trenini.

Ci dev’essere una storia strappalacrime nel suo canto, da Mario Merola con colica renale.

Di tanto in tanto il violino orientaleggia con un flashback ottomano e, a questa licenza levantina, Mirko distende fronte e gote (i baffoni coprono eventuale sorriso).

La performance di Mirko termina con un acuto tenorile da Claudio Villa di provincia.

Applausi da tutti i clienti del ristorante. Teodosic si alza nel suo monumentale metro e 96 e batte vigorosamente le mani.

Con Mirko, riaccomodatosi, verifico:

-É questa la sevdalinka? –

Mirko: -È questa la canzone in cui mi sento sempre a casa-

Commento: -A parole è dura descrivere l’emozione provocata da una musica-

Mirko: -C’è uno scrittore molto amato in Italia che qualche parola indicativa sulla sevdalinka l’ha scritta-

Domando: -Chi è? –

Mirko: -Scrive Milan Kundera nello Scherzo: “Mi sento felice dentro la sevdalinka, dove il dolore non è un gioco, il riso non è falso, l’amore non è ridicolo e l’odio non è timido, dove la gente ama col corpo e con l’anima, dove quando è allegra o quando è disperata si getta nel Danubio, dove l’amore è ancora amore e il dolore ancora dolore e i valori non sono stati ancora devastati. Mi sento uscito da una sevdalinka, mi sembra che il mondo di quella canzone sia il mio marchio originario. Anche se il mondo della sevdalinka non è forse più di questa terra, e il suo suono-canto non è che ricordo o sopravvivenza simbolica, io mi sento sprofondare con stupore in quella musica di profondità sterminata” –

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Hvala puno, grazie mille, Mirko. Come dice Jack London, le storie contano solo se ben raccontate.

Carlo Maria Milazzo

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