Auschwitz, senza parole

Su un busto di Samuel Beckett è scritto: “Volgi la mente al giorno in cui le parole mancheranno”.
Già fatto.
In modo indotto, ad Auschwitz.
Entro ad Auschwitz nella primavera del 1983.
Fino ad oggi, primavera del 2022, su Auschwitz non ho scritto una parola. 39 anni di silenzio, sconcertato.
La parola per Auschwitz non esiste.
La parola ha una malizia retorica e diventa, in un istante, linguaggio criminale.
La parola, dice Shakespeare, è puttana: oltre ad andare con tutti, si adatta alle esigenze del cliente.
La parola sottintende, fraintende, implica.
La parola si inclina al sofismo e vorrebbe sempre una rifinitura in bellezza.
Non c’è parola, sia essa aggettivo-sostantivo-verbo-neologismo, da riferire ad Auschwitz.
Ma non c’è nemmeno musica da accoppiare ad Auschwitz.
Vogliamo provare con Arnold Schönberg, nume riconosciuto del suono del disagio?
Davvero poca cosa è il disagio.
Una musica, poi, si atteggerebbe a colonna sonora e, in quanto colonna, diventerebbe reggente.
Ma neppure un quadro può essere appeso ad Auschwitz.
Vogliamo attaccare un Francis Bacon, padreterno della crudezza e della brutalità?
È insufficiente la spietatezza, inidonea l’atrocità.
Un quadro, poi, arrederebbe e ad Auschwitz non ci sta neanche il grigio-portaerei dei mobili modulari.
Entro ad Auschwitz, Slesia polacca, nell’aprile del 1983. Giornata cristallina che rende brillanti le foglie giovani delle betulle. Mi soffermo sotto il cancello di ferro: il sole riesce a rimbalzare sul metallo. Lì, l’orchestra delle ragazze di Auschwitz, tutte deportate, esegue grottesche marce marziali al passaggio dei prigionieri rasati/stracciati/claudicanti, quelli che vanno al lavoro. L’insegna: Arbeit macht frei.
Io mi sto dopando con Bertrand Russel: “l’etica del lavoro è un’etica da schiavi e nel mondo moderno non dovrebbe più esserci bisogno di schiavi”.
Io faccio colazione con Alejandro Jodorowsky: “il lavoro è la follia dei poveri”.
Io mi sballo di Henri Melville: “Loro parlano della dignità del lavoro. Balle! La dignità è nel tempo libero”.

Già con queste visioni del lavoro, l’insegna è delinquente. Il sangue mi si raggela cogliendo lo scherno verso chi è avviato, da Auschwitz e da altri lager, al lavoro forzato che lo indebolisca in progressione, fino alla morte. Il lavoro imposto dai nazisti non nobilita nemmeno accidentalmente, ma debilita deliberatamente fino alla consunzione.
Scrive Leonardo De Benedetti nella Denuncia contro il dottor Joseph Mengele:
Il dottor Mengele si presentava al campo sempre in divisa irreprensibile, molto elegante, quasi raffinata, con alti stivaloni lucentissimi, i guanti di pelle, un frustino in mano. Mentre procedeva alla “Selezione”, esame delle condizioni fisiche dei prigionieri per rilevarne l’attitudine al lavoro, assumeva un’aria sorridente e quasi gentile. Con il frustino, man mano che i giudicandi sfilavano di corsa, nudi, davanti al suo sguardo e si fermavano un attimo innanzi a lui, il dottore indicava con suprema indifferenza il gruppo al quale il suo giudizio infallibile aveva assegnato il prigioniero: a sinistra i condannati, a destra quei pochissimi fortunati che egli giudicava ancora atti al lavoro.
Scrive Primo Levi nel Rapporto su Auschwitz:
Gli ammalati non avevano alcuna possibilità di curarsi, ma erano costretti a lavorare ugualmente ogni giorno fino a che cadevano esausti sul lavoro. Questi casi erano frequentissimi. Avveniva allora che per le constatazioni di morte fossero incaricati due individui, non medici, che, armati di nervi di bue, bastonavano per alcuni minuti il caduto. Se questi non reagiva, lo si considerava morto e il suo corpo veniva subito trasportato al crematorio; se invece si muoveva, morto non era e perciò lo si costringeva a riprendere il lavoro interrotto.
Non ho finora scritto di Auschwitz perché le parole di uso corrente per lo sterminio non mi hanno convinto.
GENOCIDIO è parola coniata nel 1944 dal giurista polacco Raphael Lemkin, impastando il greco “genos – stirpe” e il latino “coedere – uccidere”, con collegamento a quanto subito da armeni (1915) e ucraini (1932), ma anche con occhio rivolto agli ebrei in Europa. Il termine di Lemkin serve a definire il “delitto di metodico annientamento” tra il processo di Norimberga (1945) e la Convenzione dell’ONU (1948). Il lemma acquista forza giuridica erga omnes, ma, secondo me, perde vigore per determinare la singolarità degli eventi che travolgono gli ebrei.
OLOCAUSTO è un vocabolo presente nel Levitico (1, 3) e indica animali “bruciati interamente” nei sacrifici. Il termine viene registrato nel 1942 nell’Oxford Dictionary, con lo specifico significato di “disintegrazione totale degli ebrei”. Tuttavia, il senso biblico del sacrificio, che nelle lingue italiana e francese permane con ambigua sottigliezza, sminuisce il progetto di azzeramento degli ebrei solo perché tali e non tiene conto della loro non volontà di sacrificio, della loro avversione all’olocausto.
La parola SHOAH entra nel linguaggio internazionale nel 1951, con l’istituzione della Giornata del Ricordo della Distruzione (Yom HaShoah). Shoah appartiene a un campo semantico largo che include, oltre a quello di “distruzione”, i concetti di “catastrofe” / “vuoto” / “buio” / “desolazione”. A mio parere, il concettuale non può mai esprimere il dolore immane della tragedia.
Non ho finora scritto di Auschwitz perché, da quando vi ho messo piede, mi girano dentro queste domande, poi ben espresse da David Grossman alla sua laurea honoris causa a Firenze, gennaio 2008: come mi sarei comportato io in quell’epoca, in quella realtà? Che cosa avrei fatto trovandomi dalla parte delle vittime? E che condotta avrei osservato se fossi stato tra gli aguzzini o soltanto connazionale dei carnefici? Sarei stato fiero se avessi retto i pantaloni col cinturone fibbiato Gott mit uns? Sarei abbrutito a lupo se mi avessero infilato il camicione di tela rigato?
Sarei riuscito a mantenere una parvenza umana, sia in qualità di perseguitato che in qualità di boia? Sarei sfociato indolente nel meccanismo omicida dei nazisti? Che cosa avrei soppresso in me stesso per diventare un assassino? Che squallidi stratagemmi avrei inventato per spostare magari di poco i miei giorni di sopravvivenza?
Che caspita avrei provato ad escogitare se avessi avuto dei figli in evidente pericolo di vita?
Ho finora avuto paura a darmi risposte.
Auschwitz è di sicuro la situazione estrema per antonomasia.
Ma, nella vita vissuta, situazioni vagamente tendenti all’estremo mi sono capitate.
Penso agli anni del bullismo scolastico: mi sono mai schierato con i bullizzati? Ho mai scazzottato un bullo? Ho mai stigmatizzato gli abusi del bullismo? =) No, per non essere bullizzato a mia volta (o di più se già tra i molestati).
Penso ai vari luoghi di lavoro frequentati (tutti luoghi con etica da schiavi, di irrisione del tempo libero, di poveri farneticanti per un cottimo/uno straordinario/una diaria): mi sono mai schierato con i maltrattati da mobbing? Ho mai preso a pugni un capetto ubriaco del suo potere ridicolo? Ho mai protestato contro il sabotaggio mentale e professionale? =) No, per non essere mobbizzato a mia volta (o di più se già tra i vessati) ….
Scrive Primo Levi nella Testimonianza per Eichmann:
Nel cuore della civile Europa è stato sognato un sogno demenziale, quello di edificare un impero millenario su milioni di cadaveri e schiavi. Il verbo è stato bandito per le piazze: pochissimi hanno rifiutato, e sono stati stroncati; tutti gli altri hanno acconsentito, parte con ribrezzo, parte con indifferenza, parte con entusiasmo. Non è stato solo un sogno: l’impero, un effimero impero, è stato edificato: i cadaveri e gli schiavi ci sono stati.
Ancora Primo Levi, nell’Europa dei Lager:
La dottrina da cui i campi sono scaturiti è semplice e perciò molto pericolosa: ogni straniero è un nemico e ogni nemico deve essere soppresso. È straniero chiunque venga sentito come diverso per lingua, religione, aspetto, costumi e idee.
Auschwitz. I Blocchi: gruppi di case, in mattoni rossicci e disposte con rigore geometrico. Case ricavate da ristrutturazione di vecchia caserma polacca (a Birkenau-Auschwitz II, 5 km a nord-ovest, le case sono in legno verniciato). Vialetti di ghiaino rastrellato. Entrata delle case sotto il livello del suolo. Letti a castello a tre piani. Il cortile tra Blocco 10 e Blocco 11 chiuso da due muri opposti, contro i quali si eseguono fucilazioni. Piazzale con torretta per ufficiali Shutzstaffel (SS) e forca che assicura impiccagioni quotidiane. Piazzale dove viene fatto l’interminabile appello dei detenuti, chiamati per numero tatuato. Filo spinato elettrificabile. Binari collegati alla vicina Oswiecim, che dal 1856 è grande snodo ferroviario dell’impero asburgico (treni per Vienna, Berlino, Cracovia, Katowice). Ka-Be o Krankenbau, infermeria di otto baracche con aspettativa di vita di 5 giorni per chi è brevemente ricoverato: in dotazione solo aspirina e urotropina. Mucchi di capelli tagliati a donne e uomini appena giunti col carro-bestiame. Cumuli di occhiali requisiti ai deportati. Cataste di scarpe e scarponi. Montagnette di barattoli vuoti di Zyklon B, la polvere grigio-azzurra dell’acido cianidrico. Coacervi di spazzole e pennelli da barba. Una camera a gas integra, con saletta d’attesa/docce posticce/rotaie connesse al forno crematorio (a Birkenau ci sono anche camere a gas sotterranee). Maschere antigas e lunghi uncini, assegnati ai prigionieri del Sonderkommando per liberare le camere dai cadaveri. Il forno con tre sportelli per introdurre contemporaneamente più salme (il maggior numero di forni è a Birkenau). La ciminiera centrale (il camino).
Non ho finora scritto di Auschwitz per timore di incollare etichette banali (etichettare è mettere l’involucro davanti al contenuto).
Oggi scrivo perché sono convinto che la parola scritta possa essere strumento per evolvere, dal latino volvere, far rotolare in avanti.
Quindi azzardo 4 definizioni per Auschwitz.
Auschwitz è il mattatoio dove si sgozzano insieme angeli e maiali.
Auschwitz sono gli occhi inaffrontabili di Satana, troppo più forti di qualsiasi tua visione.
Auschwitz è sensazione di deserto che si amplia in cerchi con circonferenze sempre maggiori.
Auschwitz è il solo luogo al mondo che non si può coca-colonizzare, neanche con un distributore di bibite.
PRIMA NOTA. Scrive Primo Levi nell’Anniversario:
Non è lecito dimenticare, non è lecito tacere. Se noi taceremo, chi parlerà? Non certo i colpevoli e i loro complici. Se mancherà la nostra testimonianza, in un futuro non lontano, le gesta della bestialità nazista, per la loro stessa enormità, potranno essere relegate fra le leggende. Parlare, quindi, bisogna…. Siamo uomini, apparteniamo alla stessa famiglia umana a cui appartennero i nostri carnefici. Davanti all’immensità della loro colpa, non riusciamo a sentirci estranei all’accusa che un giudice extra-terreno, sulla scorta della nostra stessa testimonianza, eleverebbe contro l’umanità intera.
Siamo figli di quell’Europa dove è Auschwitz, siamo vissuti in quel secolo in cui la scienza è stata curvata e ha partorito il codice razziale e le camere a gas. Chi può dirsi sicuro dall’infezione?
SECONDA NOTA. Scrive Primo Levi in Se questo è un uomo:
Ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre.
L’accaduto è da poco riaccaduto: 3 milioni di cambogiani uccisi sotto il regime Khmer di Pol Pot (1975-1979), un milione di Tutsi sgozzati dagli Hutu nel Rwanda (1994), 8000 musulmani bosniaci massacrati a Srebrenica dalle milizie di Ratko Mladić (1995), 450000 soppressi tra Fur/Zaghawa/Masalit da parte dei “demoni a cavallo” nel Darfur (2003-2010) ….
Oggi, primavera del 2022, l’accaduto è in atto: Yazidi nello Sinjar iracheno, insurrezionalisti tribali Kamwina Nsapu nel Kasai congolese, Rohingyanello stato di Rakhine in Myanmar, Uiguri nello Xinjiang cinese, Buddhisti tibetani a Lhasa, Hazara sui monti dell’Afghanistan centrale, Nuer nel Sud Sudan, Amhara nell’Etiopia settentrionale, Dogon nella regione Mopti del Mali, cristiani e Bahai nello Yemen, Guajajara nell’Amazzonia….
L’accaduto, a mio avviso, riaccade non solo per assoggettare popoli/convertire a una fede/manipolare affetti/conquistare terreni, magari ricchissimi/eccitarsi continuamente di potere. L’accaduto, per me, riaccade non tanto per eliminare delle minoranze, ma soprattutto per cancellare l’unicità altrui.
L’Unicità è la sola garanzia di Libertà.
TERZA NOTA: Leonardo De Benedetti, nato a Torino nel 1898 e ivi residente. Medico-chirurgo. Arrestato il 3/12/43 a Lanzo d’Intelvi, nel comasco. Incarcerato a Como, Modena, nel campo di concentramento della Polizia Italiana di Fossoli-Carpi. Partito da Carpi nel tardo pomeriggio del 21/2/44 su vagone-merci da 50 persone, unitamente ad altri 650 stipati in altri vagoni. Arrivato ad Auschwitz la sera del 26/2/44. “Selezionato” appena sceso dal treno tra i sani, abili al lavoro. Trasportato subito in camion a Monowitz BUNA-Auschwitz III, 7 km a est. La moglie Jolanda va alla camera a gas dopo 14 giorni. A Leonardo De Benedetti viene tatuato sul braccio il numero azzurrino 174489.
Primo Levi, nato a Torino nel 1919 e ivi residente. Chimico. Arrestato il 16/12/43 a Brusson in Val d’Ayas. Incarcerato nella vicina Aosta e traferito a Fossoli a fine gennaio 44. Partito da Carpi il 22/2/44 insieme ad altri 650, tutti chiusi in 11 vagoni-merci. Nessuno riceve cibo e bevande durante il viaggio che passa per Mantova, Verona, Brennero, Salisburgo, Vienna, Brno. Arrivato ad Auschwitz la sera del 26/2/44. Immediatamente “selezionato” come adatto al lavoro. Nella notte stessa dislocato con camion a Monowitz BUNA-Auschwitz III. A Primo Levi viene tatuato sul braccio il numero 174517, quello che Levi chiama il nome di quando non avevo nome.
QUARTA NOTA: Scrive Primo Levi ne La chiave a stella:
L’amare il proprio lavoro (privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra, ma questa è una verità che non molti conoscono.
Ne deriva che no, il lavoro non rende liberi.
Ne consegue che sì, il TUO lavoro ti rende libero.
Carlo Maria Milazzo