Ancora “iconico”? Non se ne può più

Non ci libereremo della parola “iconico”. Siamo sommersi di “icone” del pop o del rock. O dello sport. Qualcuno ha tentato sul social, velleitariamente, d’innescare una piccola crociata per abolire “iconico” dal nostro vocabolario. È una battaglia persa. “Icona” ha un’aura sacrale, anche se i più manco rammentano cosa siano le icone. Una volta ci s’inginocchiava ai piedi di un’immagine sacra. Oggi idolatriamo – fin che durano, s’intende – persone di successo “iconizzate”. Tutta roba importata o reimportata, diciamocelo, dall’inglese, anche quando fossero parole d’origine latina.
Viceversa, potremmo quasi consolarci per la quasi scomparsa di “serendipity”, altra parola che godeva di un discreto successo qualche anno fa. Che se ne vada serenamente nel dimenticatoio.
Sono altresì fortemente in calo anche le quotazioni di “resilienza” e “resiliente”. Tuttavia, papa Francesco, nella sua autobiografia “Spera” (primo caso nei secoli di un papa che scrive e pubblica la storia della propria vita) ha ripescato, ahinoi, la parola “resiliente”. La resistenza alla resilienza non ha ancora vinto la sua battaglia, se un papa l’adotta. D’altra parte, scherzi a parte, le lingue sono organismi viventi. Vivono di vita propria, si contaminano a piacere. Sognare una purezza linguistica, come tentano comicamente invano i francesi da decenni, è utopia.
La lingua del momento, che sembra sempre più un codice fonetico, l’inglese, è la lingua più contaminata al mondo. Assorbe di tutto di più. Ed è anche la più contaminante. Anche per questo è vincente. Anni fa un testo editato dalla BBC – “The story of English” – si arrendeva e ammetteva che esistono nel mondo “the Englishes”, più varianti della lingua inglese. Non è detto che si capiscano, se fuoriescono da un certo raggio di comprensibilità fonetica, come dimostra un’autentica interrogazione di qualche anno fa nel parlamento inglese. Un ministro dovette gettare la spugna, non riuscendo a capire cosa chiedesse un parlamentare scozzese, comunque suo connazionale sul piano linguistico. L’inglese ha una parola fantastica, per descrivere un parlare insensato, un mero affastellare di suoni: “gibberish”. Potrebbe essere parente alla lontana del nostro “maccheronico” o del “grammelot” di Dario Fo. In rete sono reperibili alcuni esilaranti momenti di autentico involontario “gibberish” nientemeno che di Winston Churchill.
La prova più simpatica dell’espansione nel mondo dell’inglese è che pullulano comici che vivono di scenette e parodie di questa lingua e delle sue stranezze. Nativi e non. Ci sono anche comici inglesi o attori che punzecchiano i parlanti americani e viceversa. Li consigliamo, per far pratica e sorridere.
Ad esempio, il comico finlandese Ismo, andato a vivere negli Usa. Strappa il sorriso ironizzando sulla propria incompetenza linguistica americana ma anche sulle stranezze, soprattutto fonetiche, della lingua inglese. Giusto per restare in tema, sono spesso degli “stand up comedian”, comici improvvisatori.
Al momento, in questa gara d’autoironia linguistica, uno dei “plus” – altra parola in realtà d’origine latina, per cui teniamocela stretta – è, ad avviso di chi scrive, Nathan Lee Bargatze. S’è inventato una spassosissima ironia sulle bizzarrie anglofone, presentandosi come George Washington, mentre attraversa con barca ed equipaggio il Delaware (vero episodio “iconico” dell’indipendenza americana). Il padre fondatore degli Usa profetizza cosa faranno in futuro gli uomini liberi con le parole e le misurazioni. Scopriamo così che gli americani potranno stare tranquilli sugli hot dog: non son fatti coi cani. Se però un membro del suo equipaggio osa chiedere di cosa son fatti lo caccia nel fiume: un vero americano, spiega, non chiederà mai di cosa son fatti gli hot dog.
Gianni Varani